NEL COGNOME DELLA MADRE
La Corte costituzionale ribadisce: l’attuale meccanismo di attribuzione del cognome ai figli «è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», che considera la madre, di fatto, “nessuno” e la progenie di proprietà esclusiva del padre. Storia di una disparità non di nome, ma di sostanza. Aspettando, con impazienza una legge
Che cos’è un cognome? Un elemento fondamentale dell’identità, direte. Vero, basta pensare ai numeri impressi sul braccio ai lager. Obiettivo: cancellare la persona. Ma un cognome è anche un’indicazione di proprietà. Del padre. Tanto che fino alla riforma del Codice di famiglia del 1975 si veniva indicati nei registri militari e nella carta di identità con il cognome (paterno), il nome proprio e la dicitura “di” con il nome del padre, o “fu” se era morto. Quando il padre non c’era, fino alla modifica voluta dalla senatrice socialista Lina Merlin nel 1955, compariva la scritta “di N.N.”: se non c’era un padre che riconosceva, si era figli di nessuno. Il che, oltre ad avere un risvolto bizzarramente mistico, rivelava che la genitorialità era rilevante da un punto di vista legale (e culturale) solo dalla parte paterna: si era proprietà del padre e quindi si aveva un nome. Oppure non si aveva “origine”, e questo comportava una serie di discriminazioni anche pesanti. Oltre a provocare un profondo quanto ingiusto senso di vergogna. Perché la madre, di fatto, non era nessuno.
Tutto questo si è trascinato, nella sostanza delle leggi, ben oltre l’abolizione delle norme discriminatorie e (in parte) della mentalità patriarcale che le accompagnava. Ma ora sta per scomparire, grazie a una ordinanza della Corte Costituzionale che, in occasione di un’azione promossa dal Tribunale di Bolzano, ha ripreso e rilanciato una sua sentenza del 2016, che già riconosceva l’incostituzionalità dell’imposizione del cognome paterno ai figli, naturali o adottati che fossero. Quella sentenza che, come tutte le disposizioni della Corte, può abrogare leggi o parti di leggi considerate incostituzionali ma non può crearne di nuove, ha generato una situazione bizzarra: adesso si può aggiungere a quello paterno il cognome della madre, ma solo se i genitori sono d’accordo. E se non lo sono?, si è chiesto il Tribunale di Bolzano, che ha sollevato il caso.
La nuova ordinanza 11 febbraio 2021, n. 18, che non è una sentenza (per averla ci vorranno ancora mesi), in sostanza dice che la Corte riserva a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori. In particolare, si mette in discussione la validità di questa imposizione in base agli articoli della Costituzione 2, 3 e 117, primo comma, quello che vincola l’Italia alle leggi europee e alle convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Di proprietà del padre
Ma dunque, che cosa sostiene la Corte Costituzionale e che cosa cerca di far capire a governi e Parlamenti che, sul tema, si sono rivelati del tutto sordi? Che anche la situazione in vigore dal 2016, ovvero la possibilità di dare sia il cognome del padre che quello della madre ai figli, purché entrambi i genitori siano d’accordo, è discriminante. E richiama concetti, come “patria potestà”, aboliti da tempo dal nostro codice. Non ci sarebbe da giurare, poi, che l’idea che moglie e figli siano “di proprietà” del marito sia scomparsa del tutto: basta contare il numero di femminicidi e assas
sinii di figli per “vendetta”. Ma è ovvio che, da un punto di vista giuridico, qualsiasi discriminazione è oggi inaccettabile. E la legge sul cognome, così come quella sul professionismo sportivo femminile, resta l’ultima bandiera di una legislazione che, per tutto il periodo monarchico e, ancor più, sotto il fascismo, ha discriminato le donne, tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. Solo a fatica, la Costituzione repubblicana ci ha portato oltre il guado.
Una legge che ribalti l’attuale
Ormai da 60 anni, la paladina di queste battaglie è Rosanna Oliva de Conciliis, 86 anni portati con una forza e una tempra davvero speciali, che ha raccolto l’eredità delle madri costituenti, come, appunto, Lina Merlin e Maria Maddalena Rossi. È proprio Oliva, a cui le italiane devono il ricorso che condusse alla legge n. 66 del febbraio 1963 per l’accesso ai pubblici uffici e alle professioni, a sottolineare che la battaglia continua. La Rete per la Parità, da lei presieduta, è pronta a sollecitare il governo Draghi. Perché «la Corte può solo dichiarare una norma illegittima, non colmare il vuoto legislativo. Per questo speriamo che, nel frattempo, governo e Parlamento, dopo anni di indifferenza, agiscano e producano una legge che, di fatto, ribalti l’attuale». Ovvero stabilisca che, di default, i figli prendano entrambi i cognomi, salvo decisioni diverse e condivise dei genitori. «La norma servirà anche per risolvere una serie di problemi», aggiunge Oliva. Per esempio, se i fratelli nati dopo la riforma avranno cognomi diversi da quelli nati prima, se si può mettere davanti il cognome materno. E quali si trasmettono: se il cognome paterno resta davanti e se ne portano solo due, quello materno potrebbe perdersi alla seconda generazione. La legge, insomma, serve. E la presenza, alla Giustizia, della ministra Marta Cartabia, potrebbe aiutare: quando era presidente della Corte costituzionale modificò il regolamento per rendere possibile l’ascolto di formazioni sociali senza fini di lucro. Per questo, ora, la Rete per la Parità sta preparando una memoria che contribuisca al lavoro della Consulta: il giudice Giuliano Amato, relatore dell’ultima ordinanza, ha annunciato che sarà esaminata tutta la normativa sull’attribuzione del cognome.
È interessante perché la Corte, in qualche modo, riconosce che residui patriarcali si annidano ancora tra le nostre leggi, nonostante siano passati 73 anni dall’entrata in vigore della Costituzione e, in particolare, dell’articolo 3, che non solo stabilisce la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, ma affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Sia la Corte, sia la Rete per la Parità insistono che sia proprio questo articolo a imporre al Parlamento di agire.
In questo l’Italia è rimasta indietro. Benché le legislazioni siano ancora frastagliate anche nei Paesi avanzati. In Italia, per esempio, pochissime donne usano ancora il cognome del marito (in genere per motivi professionali). Negli Stati Uniti è la norma: chiamiamo la First Lady Jill Biden e non Jill Jacobs. Però, proprio negli Stati Uniti,
ai genitori è riconosciuto il diritto di chiamare il figlio con il cognome della madre, di aggiungerlo o anteporlo a quello paterno. In Spagna e nei Paesi ispano-americani i figli assumono sia il primo cognome del padre che il primo della madre. Tranne che in Argentina, dove si prende solo il paterno. Nel mondo dell’arte e dello spettacolo, poi, da tempo molti scelgono come nome de plume il cognome della madre.
“Scegliere” i figli
C’è da dire che le differenze non sono sempre legate a un differente livello di “civiltà”. Fra l’altro, anche in passato, è accaduto che, in mancanza di eredi maschi, il nome di una casata illustre sia passata dalla madre ai figli, pure in Italia. Giovanni Andrea IV Doria Landi, su volere di papa Clemente XIII, prese cognome, stemmi e beni della famiglia Pamphili dopo il matrimonio con Anna Pamphili e la morte senza eredi di Girolamo Pamphili. A dirla tutta, questa è la conferma che il nome designa una proprietà e non l’individualità: il cognome non passò dalla madre ai figli, ma dalla moglie (dal suocero) al marito, e solo perché non aveva fratelli maschi. Quindi, ancora una volta, era il padre al centro di questa trasmissione di nomi e beni. Perché la questione è sempre stata questa: il padre aveva il diritto di “scegliere” i figli (per esempio ignorando o viceversa legittimando quelli nati fuori dal matrimonio). Poteva diseredare, imporre carriere e matrimoni. O conventi. E quasi sempre la partita si giocava su titoli e beni. Da cui le donne erano praticamente escluse, salvo alcune eccezioni. Viceversa, le donne, soprattutto dall’Ottocento