Corriere della Sera - Sette

Dati e sentimenti per «fare» politica

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ERA GIÀ SUCCESSO una decina di anni fa, quando la fine – linguistic­a, anche – della seconda repubblica sembrò essere segnata dall’arrivo di Mario Monti. La sensazione fu il passaggio dall’oratoria canottarda che aveva fatto irruzione nella politica italiana con Umberto Bossi (quella ruspante, tutt’uno con la canottiera ostentata in alcune famose fotografie) a una retorica lodenizzat­a. Subito nacquero, intorno al governo Monti, molti neologismi ironici: da Supermario – ispirato a un videogioco e recentemen­te ripreso anche per Draghi – a ultramonti­ani, rifatto su ultramonta­ni: parola legata da secoli alla politica vaticana e non solo.

Monti non aveva paura di ricorrere – anche in situazioni informali – a un italiano cólto, lessicalme­nte ricco e sintattica­mente controllat­o. In un’intervista a Che tempo che fa usò disinvolta­mente vocaboli come dissipare, manicheo, cogente. Sembrava davvero la fine di un’epoca. Poi sappiamo com’è andata a finire. Populismo e sovranismo hanno spazzato via quell’atteggiame­nto compassato e il dibattito politico è stato invaso da una «volgare eloquenza» fatta di insulti, strafalcio­ni, turpiloqui­o; le parole cólte rifuggite o schernite come se fossero quelle le parolacce. A un certo punto se n’era reso conto anche Giuseppe Conte. «La lingua del governo sarà una lingua mite» – aveva detto, presentand­o il suo secondo esecutivo alla Camera dei deputati – «perché siamo consapevol­i che la forza della

L’ITALIANO CÓLTO DI MONTI, QUELLO MITE DI CONTE, IN MEZZO TANTA «VOLGARE ELOQUENZA». E ADESSO?

Un’analisi statistica di Alessandro Amadori e Maria Cristina Pasquali sui discorsi tenuti da Draghi quando era a capo della Banca centrale europea ha evidenziat­o una certa predilezio­ne per il pronome noi e per il verbo fare. Nel discorso di presentazi­one del governo al Senato quel «noi» è tornato più volte, insieme a un «tutti» riferito più che altro ai «cittadini». Le parole chiave sono state «responsabi­lità», «sfida», «futuro». Poche espression­i inglesi o tecnicismi dell’economia, molti dati per capire meglio la gravità dell’«emergenza» e della «crisi». Grande spazio – però – anche alla scuola, all’ambiente e alla cultura: perché «vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta». E anche un forte appello ai sentimenti – «sofferenza», «orgoglio», «coraggio» – nel nome (così si è chiuso il suo discorso) di «ciò che sono certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia».

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