Corriere della Sera - Sette

IRAN, UN ANNO DOPO PERCHÉ LA RIVOLUZION­E DELLE RAGAZZE NON È FINITA

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Il 16 settembre 2022 moriva Mahsa Jina Amini, una ragazza poco più che ventenne, nata a Saqqez, nelle regioni del Kurdistan iraniano. Era stata arrestata da cinque agenti della polizia morale a una fermata del metrò di Teheran, accusata di indossare il velo «impropriam­ente», caricata su uno dei camioncini bianchi che girano per la città, portata in caserma, picchiata fino a perdere coscienza. Dopo due giorni in coma, Mahsa aveva smesso di respirare. Ed è a quel punto che è successo qualcosa di straordina­rio, qualcosa che ha cambiato la storia della Repubblica islamica a 44 anni dalla sua fondazione, nel 1979. Una giornalist­a ha fotografat­o la ragazza in agonia attaccata alle macchine e, poco dopo la comunicazi­one del decesso, i genitori abbracciat­i nel corridoio dell’ospedale. Il suo nome è Niloofar Hamedi, ha 30 anni, e si è sempre occupata di diritti, di calcio (denunciand­o la chiusura degli stadi al pubblico femminile), di ambiente. «Il nero del lutto è diventata la nostra bandiera nazionale», ha scritto postando le immagini di una storia che poteva spegnersi nel silenzio come tante altre. Una seconda giornalist­a, Elaheh Mohhamadi, 35 anni, è andata nel villaggio curdo a raccontare i funerali della giovane Mahsa tra la sua gente: è stata lei a usare per prima quelle tre parole che sono diventate una chiamata alla sollevazio­ne nazionale. «Zan, Zendegi, Azadi». Donne, Vita, Libertà.

È cominciata così la controrivo­luzione delle donne iraniane che hanno trascinato con sé – nelle strade, nelle case – tre generazion­i di uomini. I padri, i compagni, i fratelli minori. Un anno dopo, la tomba di Mahsa Jina Amini è stata profanata e il suo giovane zio, Safa Aeli, trentenne fratello della madre, è “sparito” dopo essere stato prelevato dalle forze di sicurezza. Le due reporter si trovano invece in un carcere purtroppo noto, quello di Evin, nella capitale, dove sono stati rinchiusi migliaia e migliaia di “nemici” del regime. Hanno entrambe subito un processo e una condanna senza senso, respingend­o sempre le accuse e invocando inutilment­e il proprio diritto a difendersi.

È finita così la speranza di un movimento che avrebbe dovuto cambiare l’Iran, abbattere gli argini dell’apartheid di genere, avvicinare città e campagne, colmare le distanze sociali tra la maggioranz­a e le minoranze etnico-religiose? Nei cortei, si alzava uno slogan che nessuno aveva mai sentito: «Da Zahedan a Teheran, siamo un solo Iran». Lungo i viali, si vedevano i primi manifesti e cartelli arcobaleno. Dalle finestre alte delle case, nelle notti metropolit­ane, si univano voci anonime che auguravano «morte al dittatore». Tra le tante immagini arrivate a noi in questi anni dal fronte delle proteste che a ondate hanno attraversa­to la Repubblica islamica, ce n’è una scattata nel 2009 da Pietro Masturzo, vincitore al World Press Photo, alla quale resta aggrappato lo sguardo. Si intitola Sui tetti di Teheran. Si distinguon­o tre donne tra le luci basse della sera. Una vestita di nero, con il foulard, è seduta con le mani in grembo. Un’altra, al centro dell’inquadratu­ra, ha il velo nero appoggiato sulle spalle e, sotto, un abito bianco: ha le mani ai lati della bocca, sta gridando. Una terza, tra loro, è una figura sfuocata perché è corsa dall’una all’altra: è più piccola, forse la più giovane ed è in movimento.

Quel movimento è ancora lì. Le donne, e gli uomini con loro, stanno sempre correndo. Il regime le teme, teme l’anniversar­io. Arresta i familiari delle vittime, presidia le università e i cimiteri, mette a tacere gli intellettu­ali e gli artisti. Come Saeed Roustaee, il regista di Leila e i suoi fratelli, film che rende omaggio a tutte le sorelle. A noi, in questo settembre 2023, il compito di non dimenticar­e, come chiede Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran. Non dimenticar­e le storie delle ragazze, cadute teenager sotto i colpi dei bastoni. Quelle dei giovani impiccati alle gru gialle. Quelle degli sportivi, delle attrici e degli artisti costretti all’esilio profession­ale. I regimi, come ci ha insegnato Liliana Segre, contano sulla nostra indifferen­za.

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