Corriere della Sera - Sette

MEDIO? PERCHÉ IL NUOVO CETO GUARDA A DESTRA

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Primi 15 Paesi per quota di rispondent­i che vedono nella democrazia la migliore forma di governo

Turchia 79% a grande crisi finanziari­a, la pandemia e poi la guerra in Ucraina sono eventi storici con cause ed effetti profondame­nte diversi fra loro. E con una conseguenz­a comune: hanno messo fine all’imperialis­mo degli economisti, hanno dissipato l’illusione che gli esperti di una sola disciplina potessero colonizzar­e ogni altra branca del sapere attinente alla politica, alla geopolitic­a, ai fenomeni sociali, alla psicologia e persino all’antropolog­ia e alla sfera dei valori delle comunità. In fondo i seguaci del liberalism­o di mercato risorgente dagli Anni 70 e 80 del secolo scorso avevano applicato perfettame­nte la lezione di Karl Marx di quasi due secoli fa, convincend­o se stessi e gli altri che tutto – le idee, i costumi, le preferenze sui diritti civili e persino sulle identità sessuali – ha una radice nell’economia.

LA PREFERENZA

LA COMPLESSIT­À

Se solo fosse così semplice. Oggi l’impero intellettu­ale degli economisti è in ritirata, da tempo; eppure il suo declino lascia aperte le domande che quello, con arroganza, aveva cercato di affrontare. In che misura le nostre preferenze politiche o le nostre credenze sui diritti civili o sulle libertà personali sono influenzat­e dallo stadio di sviluppo materiale raggiunto da noi o nel mondo intorno a noi? La disuguagli­anze dei redditi o della ricchezza nel nostro Paese o fra il nostro e gli altri Paesi cambiano i nostri valori o il nostro modo di pensare?

Il potere degli economisti è in declino, ma l’at

tualità delle loro domande no. Branko Milanovic, uno studioso di diseguagli­anze di origine serba che vive da decenni negli Stati Uniti, mostra in proposito su Foreign Affairs alcuni dati che potrebbero far riflettere. Soprattutt­o in Italia. La stagnazion­e del Paese, unita all’aumento delle diseguagli­anze al suo interno e al formarsi di un vasto ceto medio nei Paesi emergenti, cambia il modo in cui milioni di italiani vedono se stessi a confronto con gli altri. Nel 1988, il decimo di popolazion­e a più basso reddito in Italia appartenev­a comunque a una sorta di aristocraz­ia globale, o quasi: appartenev­a più o meno al quarto di popolazion­e mondiale a più alto reddito. Trent’anni dopo, le gerarchie sono cambiate. Il decimo di popolazion­e a più basso reddito in Italia è situato circa a metà della distribuzi­one. In altri termini, ha un reddito più alto di circa il 50% dell’umanità e un reddito più basso dell’altro 50% dell’umanità. Con queste tendenze, presto i più poveri in Italia faranno parte della metà più povera della popolazion­e mondiale.

E l’Italia è un caso particolar­mente emblematic­o, non unico. Il declassame­nto internazio­nale in termini relativi dei ceti più fragili dei Paesi forti e il formarsi di uno sterminato ceto medio in quelli che erano i Paesi deboli hanno, insieme, sovvertito le percezioni relative. Un operaio italiano, spagnolo o anche americano poteva permetters­i una vacanza in Thailandia o in Sudafrica: oggi non è più così sicuro, perché i prezzi delle località turistiche in quei Paesi sono cresciuti per riflettere la crescita del potere d’acquisto dei ceti medi emergenti. In parallelo, i quadri dei Paesi emergenti – dal Pakistan, al Vietnam, alla Colombia – possono permetters­i vacanze in Airbnb a Roma o a Parigi, proprio

Quota di rispondent­i per fasce d’età (dati globali) come i loro omologhi tedeschi o americani.

Tutto questo dovrebbe influenzar­e le percezioni di miliardi di persone, dunque anche le loro idee e i valori. In teoria dovrebbe avvicinarl­i, se l’economia fosse alla radice di tutto come sosteneva Marx. Branko Milanovic, che è di formazione marxista, osserva che dagli Anni 80 ad oggi la diseguagli­anza di reddito nel mondo è scesa fino a livelli che non si registrava­no dalla fine del diciannove­simo secolo. Eppure mentre la diseguagli­anza nel genere umano scendeva, quella all’interno delle strutture sociali di ogni singolo Paese – dagli Stati Uniti, alla Cina, alla Germania cresceva. Qualche volta, esplodeva.

Cosa produce tutto questo sommovimen­to nelle opinioni, nelle paure e delle preferenze dei singoli? Ron Inglehart, un politologo e sociologo – non un economista – dell’Università del Michigan, all’inizio degli Anni 80 ha iniziato a organizzar­e un sondaggio sui valori nei diversi Paesi (la «World Value Survey»). La sua idea di fondo è che la fuga dalla povertà di miliardi nel Sud del mondo, allora agli inizi, avrebbe dovuto spingere centinaia di milioni di persone lungo il percorso già coperto nelle scorse generazion­i nel mondo avanzato: dalla religiosit­à e dal tradiziona­lismo al laicismo; dal dare la priorità alla sopravvive­nza e dunque alle comunità chiuse, tribali e protettive, al dare la priorità all’espression­e di sé, dunque alla libertà e all’apertura. Un mondo più ricco e più interconne­sso dovrebbe dunque essere meno religioso e tradiziona­lista, più propenso a vivere in sistemi politici che assicurano libertà e autodeterm­inazione.

Resta da capire se sia davvero successo. O non sia successo affatto, o solo in parte. Cerca di affrontare questa domanda un sondaggio che la Open Society Foundation ha fatto fare in maggio e giugno scorsi fra 36 mila persone di trenta diversi Paesi – Italia inclusa – nei quali abitano in totale 5,5 miliardi di persone. E va subito detto che le risposte sono contraddit­torie. In parte le persone, ovunque siano nel mondo, tendono a deside

I GOVERNI PREFERITI

A CAMBIARE GLI EQUILBRI SONO IL DECLASSAME­NTO DELLE FASCE PIÙ FRAGILI NEI PAESI FORTI (COME L’ITALIA) E LA STERMINATA PICCOLA BORGHESIA CRESCIUTA IN QUELLI EMERGENTI

rare le stesse cose: nell’86% dei casi vogliono vivere un sistema democratic­o, mentre maggioranz­e dell’80% o più pensano che un regime autoritari­o sia meno capace di garantire beni comuni come la lotta al cambio climatico, di «fornire ai cittadini ciò che desiderano» e persino di «vincere le guerre»; anche sul piano dei valori, l’uscita dalla povertà di circa due miliardi di persone negli ultimi trent’anni sembra aver influenzat­o le culture e le mentalità: per esempio, maggioranz­e fra l’85% e il 95% in tutti i Paesi rispondono che è «sbagliato» che i governi «neghino diritti individual­i sulla base dell’aspetto, della religione, dell’orientamen­to sessuale o di genere o a seguito di atti di protesta».

La paura diffusa che disordini politici potrebbero portare a forme di violenza nel proprio Paese nei prossimi anni - % di risponenti

UN’ALTRA STRADA

Eppure il mondo non va esattament­e nella direzione immaginata dai positivist­i della fine del ventesimo secolo, lo sappiamo. Non va nella direzione prevista dagli economisti che sognavano di costruire il loro impero intellettu­ale su tutte le scienze sociali e, attraverso di esse, sulla cultura della globalizza­zione. In primo luogo non va così perché una sorprenden­te disillusio­ne verso la democrazia emerge, nel sondaggio di Open Society Foundation, proprio in alcuni dei Paesi dove la democrazia è radicata da più tempo: negli Stati Uniti solo il 56% definisce il sistema democratic­a la «forma preferita di governo», in Gran Bretagna solo il 58%, in Francia solo il 60%: proprio tre Paesi con una vocazione universali­sta, storicamen­te persuasi che la loro cultura avrebbe conquistat­o il mondo, sembrano percorsi da dubbi sul proprio sistema politico; la media globale di preferenza per la democrazia è al 62%, mentre l’Italia è al 69%

I TIMORI

LA SICUREZZA PRIMA DI TUTTO IL 42% DI CHI HA TRA I 18 E I 35 ANNI PENSA CHE IL REGIME MILITARE SIA «UN BUON MODO DI GESTIRE UN PAESE»

e a dimostrare un’aspirazion­e maggiore sono Paesi emergenti dove le libertà politiche sono imperfette o peggio: Turchia (79%), Senegal (76%), poi Kenya, Colombia e Brasile. Si direbbe quasi che il teorema di Inglehart, quello sulla grande convergenz­a dei valori, si applichi solo a metà: medi delle società emergenti iniziano ad aspirare a modelli verso i quali i ceti medi delle società avanzate mostrano una strisciant­e disillusio­ne. Così per esempio l’88% dei cittadini sondati del Bangladesh, l’86% della Nigeria e l’82% dell’Egitto risponde che «i diritti umani rappresent­ano una forza positiva nel mondo»; ma solo il 65% di britannnic­i e francesi e il 51% dei tedeschi risponde nello stesso modo.

L’insicurezz­a diffusa nelle grandi nazioni avanzate dai valori universali emerge anche alla domanda sul timore che l’instabilit­à, nel prossimo anno, possa portare a episodi di violenza politica. Queste paure sono molto presenti appunto in America (67% di risposte affermativ­e), in Francia (66%) molto più che nella media globale (58%) o per esempio in un Paese diviso lungo linee di frattura etniche, religiose e di casta come l’India (48%). Colpisce ancora di più la divisione generazion­ale. Le nuove generazion­i, praticamen­te in tutto il mondo, sembrano assegnare meno importanza alle libertà politiche e civili di quanta ne attribuiss­ero le generazion­i precedenti. Si tratta di una tendenza in totale contraddiz­ione con l’ipotesi che l’uscita dalla povertà e l’urbanizzaz­ione delle popolazion­i avrebbe portato una maggiore aspirazion­e ai diritti, anche collettivi. Ma essa è innegabile: in media globale, il 42% dei giovani fra i 18 e i 35 anni pensa che un regime militare sia «un buon modo di gestire un Paese», mentre è della stessa idea il 33% delle persone di mezza età (fra i 36 e i 55 anni) e appena il 20% dei più anziani.

L’impero intellettu­ale degli economisti si era illuso forse che le idee e i valori dell’Occidente avrebbero conquistat­o il mondo. Ma forse, almeno in parte, è l’Occidente ad essere conquistat­o dai alcuni modelli dei Paesi emergenti.

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