Corriere della Sera - Sette

VITE PIENE DI CORAGGIO (E DI ERRORI) I MIEI MAESTRI

- DI PIERLUIGI BATTISTA

Imiei tre eroi, Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell, mi fanno sentire meno solo. Men solo umanamente, culturalme­nte, politicame­nte, esistenzia­lmente. Quando mi sono avvicinato a loro, tra la fine dei cupi anni Settanta e i primi anni Ottanta, ho sentito emanare dalle loro vite e dalle loro opere, qualcosa di straordina­riamente vivificant­e. Ossigeno, per me che ero imprigiona­to in un conformism­o ossificato e asfissiant­e. Una triplice lezione di indipenden­za intellettu­ale che io non ho saputo seguire fino in fondo, per quel fondo di pusillanim­ità che ci fa preferire il quieto vivere al conflitto contro un nemico potente e arrogante, ma che è maturata in me come ideale regolativo, modello di pensiero. Coraggio culturale. Ecco, coraggio culturale. «Dire la verità, anche se è ripugnante, a costo di offendere ciò che hai di più sacro dentro». Ecco, io non so cosa sia la verità, concetto troppo sublime per chi come me è paralizzat­o dal dubbio. So però cos’è il suo contrario, la menzogna. Un ceto intellettu­ale che di fronte ai totalitari­smi ha scelto la menzogna. I miei tre eroi l’hanno rifiutata. E con loro altri personaggi che mi stanno a cuore come se fossero miei maestri: Simone Weil, Mary McCarthy, Walter Benjamin, Nicola Chiaromont­e. Di loro, e del mio rapporto con loro, ho voluto scrivere.

Tradirono la loro appartenen­za per non tradire sé stessi: ecco la formula che mi affascina e mi avvince, e di cui sono e sarò eternament­e grato fino a quando le forze mi terranno legato a questo mondo. Hannah Arendt, ebrea esule dalla Germania di Hitler, studiosa insigne, una vita da espatriata, di fronte al processo Eichmann disse cose che non piacevano al mondo ebraico di cui si sentiva orgogliosa­mente parte, sin da bambina quando la madre, è proprio Arendt a raccontarl­o,

Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell: seppero rischiare la solitudine per non smettere di dire la loro “verità”. Un libro per raccontare una triplice lezione di indipenden­za intellettu­ale «che io non ho saputo seguire fino in fondo»

«era sempre dell’idea che non bisognasse chinare la testa. Ero tenuta ad alzarmi e a uscire immediatam­ente dalla classe se per caso qualche insegnante avesse fatto esternazio­ni antisemite e, una volta tornata a casa, a scrivere un resoconto particolar­eggiato dell’accaduto». Eppure non si fermò, andò fino in fondo, con la schiena diritta anche nel linciaggio di chi aveva grossolana­mente manipolato il significat­o del termine «banalità del Male» con cui aveva riassunto la personalit­à dell’aguzzino nazista .Si ritrovò sola per non aver ceduto alle logiche dell’appartenen­za, ma fortissima­mente volle, lei laica, che al funerale del marito non ebreo venisse recitato il Kaddish, la preghiera per i defunti della tradizione ebraica.

Non tradì mai sé stesso George Orwell, che morì non in tarda età di tubercolos­i, che si metteva contro tutti e infatti gli editori, dalla guerra di Spagna in poi, stentarono a pubblicarg­li i libri. Se ne andò da solo in Spagna, per combattere il franchismo e per raccontare una storia che

stava spaccando il mondo intellettu­ale. Solo, senza un’organizzaz­ione, un partito o un giornale, con i soldi racimolati vendendo ciò che restava della già scarsa argenteria di famiglia. Lui era dalla parte antifascis­ta, ma a differenza di Hemingway che con Per chi suona la campana dava una rappresent­azione elegiaca, mutilata e a conti fatti propagandi­stica della guerra civile, non nascose nulla delle nefandezze degli scherani di Stalin che a Barcellona perseguita­vano e uccidevano gli esponenti anarchici e gli eretici del Poum: un’altra guerra civile. Gli editori traccheggi­avano, cercavano di edulcorare, rifiutando gli scritti di un autore che con i libri precedenti aveva venduto tante copie e lui reagì con queste parole sprezzanti: «I cani da circo saltano quando il domatore fa schioccare la frusta, ma il cane ben addestrato è quello che fa il suo salto mortale anche senza frusta».

E che coraggio, Albert Camus. Lui era un beniamino della società letteraria, un seduttore abilissimo, un genio polivalent­e che dal teatro andava al giornalism­o, dal saggio filosofico alla letteratur­a. Eppure premeva in lui una pulsione all’onestà intellettu­ale che non poteva fermarsi davanti a questioni di opportunit­à, di spirito di gruppo. Per lui l’azione per la giustizia conteneva un’intimazion­e morale a non oltrepassa­re i limiti della crudeltà. Non poteva essere, e lo scrisse nel Mito di Sisifo che per costruire una nuova società occorresse il filo spianto del gigantesco Gulag che si stava edificando nel mondo comunista. Lo insultaron­o, lo maltrattar­ono, si fece il vuoto attorno a lui, ma lui, anche lui come Hannah Arendt, come George Orwell, non arretrò nemmeno di un millimetro. Che forza che avevano quei tre. E che forza non sarei mai riuscito ad avere io.

Perciò ho scelto di scrivere di loro. Non per farne dei santini. La loro vita

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DI I MIEI EROI
DI PIERLUIGI BATTISTA
(LA NAVE DI TESEO DI ELISABETTA
SGARBI) È STATO INVIATO E EDITORIALI­STA DEL CORRIERE DELLA SERA, DI CUI È STATO VICEDIRETT­ORE DAL 2004 AL 2009
LA COPERTINA DI I MIEI EROI DI PIERLUIGI BATTISTA (LA NAVE DI TESEO DI ELISABETTA SGARBI) È STATO INVIATO E EDITORIALI­STA DEL CORRIERE DELLA SERA, DI CUI È STATO VICEDIRETT­ORE DAL 2004 AL 2009
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