INCONTRAI BEAUVOIR E RIUSCII A DIRE SOLO: «MERCI, MADAME»
Oltre alle intellettuali, grandi o piccine, si manifestano ogni tanto menti di un’intelligenza folgorante, capaci di sondare il passato e il presente con l’incisività di un laser, e di illuminare futuri virtuali finora inimmaginabili, ma assolutamente plausibili. E questa la categoria di cui vorrei parlarvi. Fossero state maschi, le tre pensatrici che vi presento sarebbero già riconosciute come menti geniali. Essendo donne, invece, la loro credibilità viene continuamente rimessa in questione. Per me, sono figure intellettuali di prima grandezza.
Conoscevo già i loro scritti quando ebbi l’enorme privilegio di poter incontrarle tutte e tre, in momenti diversi del mio itinerario. Ogni volta che le ho sentite parlare o insegnare, è sceso dentro e intorno a me un grande silenzio. L’intensità era tale, che osavo appena respirare. Come in un innamoramento, ma tutto di testa, le imploravo silenziosamente di non fermarsi mai. Oltre alla meraviglia, sorgeva una curiosità intensa: ma com’era possibile essere così intelligenti e sopravvivere nella cultura misogina che caratterizza il mondo patriarcale accademico ed intellettuale? Da maestre, sono diventate per me dei modelli di vita e di pensiero. Le considero le mie antenate, e come tali le rispetto e le onoro. Sono le mie compagne di lotte, e in quanto tali, necessarie alla mia sopravvivenza. Rappresentano vette di pensiero che mi fanno sperare e sognare un mondo migliore. Per me, sono delle immortali.
Umanista, socialista, laica, rivoluzionaria Simone de Beauvoir è una figura ormai familiare, poiché ha difeso una posizione che, da sacrilega quando lei la formulò negli anni 40 del secolo scorso, nel frattempo è diventata sacrosanta: l’uguaglianza tra i sessi. Definiva la lotta femminista come una strategia necessaria per riequilibrare le relazioni di potere e di privilegio tra uomini e donne. Prime rivendicazioni tra tutte: piena cittadinanza e diritti civili e sociali — indissociabili tra di loro; lotta alla violenza contro il ceto femminile, ma anche
La filosofa francese, Luce Irigaray e l’americana Donna Haraway: le considero le mie antenate, compagne di lotta, modelli di vita e di pensiero. Le ho incrociate, in momenti diversi del mio itinerario: mi fanno sperare in un mondo migliore
attenzione alla rappresentazione simbolica delle donne come esseri giudicati incapaci di trascendenza e, dunque, di livelli più elevati di coscienza e di pensiero. Una pioniera: audace, coraggiosa e battagliera.
Incoraggia le femministe a lottare per andare a prendersi i poteri intellettuali di cui sono state private. Ci insegna che solo una vera rivoluzione socialista e una trasformazione femminista radicale della società sono in grado di liberare donne e uomini e di rendere giustizia a tutte quelle che finora erano state escluse. Il femminismo è di e per tutti.
Nel 1949 lancia un’idea che cambia il mondo, cioè che donna — intesa nella sua accezione di secondo sesso rispetto all’«Uomo» — non si nasce ma si diventa. Non esiste una femminilità naturale o biologicamente fissa: le nostre identità sono codificate culturalmente. La distinzione natura-cultura e l’appello alla presunta naturalità dei ruoli di genere è solo un costrutto sociale patriarcale e una strategia di potere, che serve per giustificare ingiustizie, diseguaglianze, e discriminazioni.
Avevo appena 26 anni e studiavo a Parigi quando feci la sua conoscenza ufficiale, anche se l’avevo già incrociata nelle mani
festazioni femministe e politiche che ci occupavano tanto in quegli anni. Beauvoir vi partecipava, insieme a Sartre, come una militante qualunque, distribuendo copie della loro rivista Les Temps Modernes, e del giornale che avevano fondato, Libération. Ma quando potei stringerle la mano, mi tremavano le ginocchia — credo per la prima ed unica volta nella mia vita. Lei fu cortese, incoraggiante, amichevole. A me pareva di toccare con mano la storia, anzi la Storia. E tutto ciò che mi venne da dirle fu: «Merci, Madame».
Luce Irigaray aveva solo dieci anni più di me e si era appena laureata nel mio stesso dipartimento di filosofia alla Sorbona, quando la incontrai. Anche lei militava nei collettivi femministi ed era conosciuta per la resistenza che opponeva agli aspetti più sessisti della psicoanalisi parigina dell’epoca, dominata dalla figura di Jacques Lacan. Faceva parte di una generazione filosofica che si staccava da quella di Beauvoir — che invece disprezzava la psicoanalisi — proprio perché faceva attenzione alle istanze molteplici del nostro inconscio, i desideri, le pulsioni, l’immaginario e le contraddizioni.
Irigaray ha complicato l’analisi dell’oppressione patriarcale mettendo in evidenza le strutture profonde del suo sistema “fallo-centrico”. Si tratta di un’economia politica molto materiale, che crea la supremazia maschile e rafforza il legame di potere tra gli uomini, tramite la circolazione dei corpi delle donne. Questo sistema fonda le istituzioni simboliche del patriarcato che, con tutte le dovute variazioni storiche, sono sorprendentemente costanti: Dio, Patria, Famiglia, tutte doverosamente a immagine d’Uomo. La forza del pensiero di Irigaray però è che lei considera questo gesto come un depotenziamento, non una distruzione totale — e il compito del femminismo è proprio di ripotenziare ciò che è stato cosi crudelmente spinto nel vuoto. Contro le tendenze dispotiche del pensiero psicoanalitico, Irigaray pensa invece che le strutture simboliche non sono fuori dalla storia, ma radicate pienamente nel sociale. E che quindi forme di