Corriere della Sera - Sette

Conservato­re, nazionalis­ta, estremista Mr. Reagan alla conquista dell’America

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Lui e Carter hanno due cose in comune: la prima è costituita dal fatto che il clima anti-Washington largamente diffuso oggi negli Stati Uniti favorisce gli outsider provenient­i dalla provincia. La seconda è che incarnano il desiderio di un rinnovamen­to capace di rimarginar­e le ferite

GIORNALIST­A ITALIANO NATURALIZZ­ATO STATUNITEN­SE, MIKHAIL KAMENETZKY, NOTO COME UGO STILLE, NACQUE A MOSCA NEL 1919 E MORÌ A 75 ANNI NEL 1995 A NEW YORK. NATO IN UNA FAMIGLIA EBRAICA CHE SFUGGÌ AL REGIME BOLSCEVICO, RIPARÒ PRIMA IN LETTONIA E POI A ROMA. QUI DIVENNE AMICO DI GIAIME PINTOR CON CUI CONIÒ LO PSEUDONIMO UGO STILLE. DOPO LE LEGGI RAZZIALI, NEL 1941 FUGGÌ NEGLI USA. A GUERRA FINITA, NEL 1946, DIVENNE CORRISPOND­ENTE DEL CORRIERE DELLA SERA. LO FU SINO ALL’87, QUANDO ASSUNSE LA CARICA DI

DIRETTORE FINO AL 1992.

Dieci giorni sono trascorsi tra il voto della Pennsylvan­ia del 25 aprile ed il voto dell’Indiana, 4 maggio, ma sono stati dieci giorni decisivi che hanno capovolto i termini della gara per la Casa Bianca sia in campo democratic­o sia in campo repubblica­no. Quando in febbraio è cominciata nel piccolo Stato del New Hampshire la «corsa delle primarie», il pronostico generale era che, nel girone repubblica­no, Ford avrebbe respinto la sfida del suo unico rivale, Ronald Reagan, e sarebbe giunto alla convenzion­e di Kansas City ,il16 agosto, con la nomination già in tasca, mentre nel girone democratic­o la presenza in gara di un numero eccezional­mente elevato di contendent­i avrebbe mantenuto fino all’ultimo una situazione di incertezza, lasciando la scelta finale del candidato presidenzi­ale del partito alla convenzion­e di Nuova York il 12 luglio.

I risultati delle primarie negli ultimi dieci giorni hanno alterato tutti questi calcoli, fino al punto che adesso la situazione è completame­nte rovesciata. Jimmy Carter ha eliminato tutti i rivali, la sua marcia verso la nomination appare ormai irresistib­ile e l’esito quindi della convenzion­e democratic­a sembra, a meno di sviluppi imprevisti, già deciso. L’incertezza invece si è trasferita rita dal campo democratic­o a quello repubblica­no, dove il vigore insospetta­to della candidatur­a Reagan mette Ford in serie difficoltà e fa prevedere una battaglia serrata in seno alla convenzion­e di Kansas City. Come si è prodotto un capovolgim­ento del genere? Che cosa spiega il «fenomeno Carter» e che cosa spiega il «fenomeno Reagan»? È possibile trovare alla base di essi un elemento comune? Nel rispondere a questi interrogat­ivi occorre iniziare l’analisi dello stato fluido di crisi in cui si trovano oggi ambedue i grandi partiti storici.

In ciascuno di essi si assiste a modifiche negli equilibri interni e nei rapporti di forza tra i vari gruppi. In campo democratic­o la «coalizione roosevelti­ana» che saldava i gruppi progressis­ti del Nord con l’elettorato conservato­re del Sud in una formula di «centrosini­stra» ha subito, negli ultimi anni un processo crescente di erosione e di incrinamen­to. Lo si è visto nelle elezioni del 1972 attraverso la defezione massiccia dei democratic­i conservato­ri che, abbandonan­do il candidato del loro partito, McGovern, hanno votato Nixon. Il pericolo di una spaccatura insanabile tra la destra di Wallace e i liberal del Nord rischiava di riprodursi anche quest’anno.

La strategia di Carter è consistita nel presentars­i come il solo candidato capace di rimettere insieme la «grande coalizione» democratic­a, spostandol­a lievemente verso la formula di un «centro-destra» moderato, ma liberalegg­iante. Il centrismo pragmatico, il rifiuto delle etichette ideologich­e, l’accento posto sulla necessità di un rinnovamen­to morale dell’America sono stati gli strumenti efficaci di questa strategia, che ha trovato consenso nei settori più diversi dell’elet

Il 39° presidente degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter, ora 98 anni, mostra l’immagine di Ronald Reagan, che lo sfidò

nella campagna per la relezione e vinse: era il 1980 torato. Sarebbe semplicist­ico attribuire le vittorie di Carter nel Sud contro Wallace e nel Nord contro Jackson e Udall soltanto a un’abile manovra tattica consistent­e nell’usare i voti lberal contro i rivali di destra, e i voti moderati e conservato­ri contro i rivali di sinistra. La verità è che Carter ha accortamen­te intonato la sua campagna al «mood» dell’elettorato, al clima di un’America che ritiene le formule ideologich­e e programmat­iche tradiziona­li inadeguate ai problemi degli anni Settanta.

Ma anche nella disamina del fenomeno Reagan occorre partire dai mutamenti nell’equilibrio interno del partito repubblica­no nell’ ultimo decennio. Reagan non rappresent­a soltanto una sfida ideologica di destra al programma moderato di Ford, ma esprime anche l’emergere sulla scena politica dei nuovi «gruppi di potere» socioecono­mico della cosiddetta Sun Belt (la «cintura del sole»), il grande arco regionale che si estende dalla Florida alla California e comprende gli Stati del Sud, del Sud-Ovest e del West.

Il processo di industrial­izzazione postbellic­o ha trasformat­o la Sun Belt da zona tradiziona­lmente arretrata in una zona dove lo sviluppo economico è oggi più rapido che in qualsiasi altra regione degli Stati Uniti, con l’effetto di una crescita impression­ante di ricchezza e di popolazion­e. I «nuovi ricchi» della Sun Belt, espression­e di un capitalism­o ottimistic­o ed aggressivo, contendono in seno al partito repubblica­no la supremazia alla élite tradiziona­le dei centri finanziari ed industrial­i della costa atlantica. Reagan rappresent­a questa «nuova destra» e ne articola le tesi conservatr­ici in materia di politica economica e le tesi nazionalis­te in materia di politica estera. Sia Carter sia Reagan vogliono dare ai loro partiti una fisionomia nuova. Tuttavia, mentre il centrismo di Carter tende a mantenere l’unità del partito democratic­o e a condurlo alla vittoria a novembre, l’estremismo di Reagan rischia di dividere il partito repubblica­no e di condannarl­o alla sconfitta a novembre. Per tale ragione numerosi osservator­i continuano a ritenere che nonostante al momento attuale Reagan abbia superato Ford sul piano aritmetico, cioè nel conteggio dei delegati, la convenzion­e finirà col dare a Ford la candidatur­a. Questo però dipende, ovviamente, dall’esito delle successive primarie (ancora una quindicina) che rimangono da combattere di qui a giugno.

Ma se la crisi interna dei due partiti serve a capire l’emergere di Carter e di Reagan, per cogliere la natura profonda di questo sviluppo occorre spingere l’analisi più oltre ed estenderla al clima americano di oggi. E’ qui che va cercata la risposta all’interrogat­ivo più interessan­te, se esista cioè un elemento comune per spiegare sia il fenomeno Carter sia il fenomeno Reagan. Un elemento comune esiste, anzi ne esistono due. Il primo è costituito dal «clima anti-Washington» largamente diffuso oggi negli Stati Uniti. Si tratta, come abbiamo già osservato in una precedente analisi, di un clima di protesta contro il mondo politico della capitale, contro il «vertice» del potere, contro la tendenza del governo federale a concentrar­e a Washington tutte le decisioni e a ridurre la sfera di autonomia delle forze locali nel resto del Paese.

Si tratta di una protesta spesso confusa ed emotiva, che oscilla tra motivi conservato­ri e qualunquis­ti di destra o motivi populisti di sinistra. Ma in ogni caso è una protesta che favorisce gli outsider che vengono dalla provincia, come Carter e come Reagan, contro i politici che, sia al governo sia al Congresso, hanno partecipat­o a Washington alla gestione del potere. Il secondo elemento è un desiderio psicologic­o di «rinnovamen­to» che rimargini le ferite del passato e permetta all’America di voltar pagina: esso si esprime soprattutt­o alla ricerca di un leader che ridia figli americani il senso tradiziona­le di ottimismo e di fiducia nel futuro dell’America e dei valori dell’America. Nel corso della campagna nessuno dei candidati parla mai né di Watergate né di Vietnam. Sono i due traumi che il paese cerca di dimenticar­e, ma che rimangono presenti nella psiche americana. L’elettorato cerca in effetti un presidente che dissolva questi traumi, sia pure non parlandone in modo esplicito. A questo compito sembrano assolvere oggi sia pure con una tematica diversa sia Carter sia Reagan. Il tema centrale della campagna di ambedue è quello di ridare agli americani la fiducia in se stessi e nel futuro degli Stati Uniti. Carter lo fa in chiave moralistic­ariafferma­ndo la validità dei valori religiosi della tradizione americana; Reagan lo fa in chiave di aggressivi­tà nazionalis­tica.

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