PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE LASCIARSI (ANCHE QUANDO L’AMORE È FINITO)
Bisognerebbe guardarsi dentro, ma quando lo facciamo quello che leggiamo è «sono debole, finirò male». Dirsi addio diventa quasi impossibile. La strada, spiega lo psicoterapeuta, è un’altra
Al primo passo manca il fiato, le gambe incerte e la testa gira. Viene da tornare indietro, pregare che niente sia davvero successo: insoddisfazioni e rancori, sguardi mancati e carezze scomparse, frasi taglienti e commenti distratti. E se fossero memorie lontane: «Mi ha trattata così, ma è stato tanto tempo fa»?
E allora si torna indietro, chiudiamo a doppia mandata, come quando abbiamo paura dei ladri. E invece abbiamo paura di riaprirla, quella porta, e non tornare indietro. Seduti sul divano la realtà si mostra nella sua arroganza e maleducazione: recita incessante la sua filastrocca. Le abbiamo espresso scontentezza. Ma lei, sgarbata, ripete: è tutto vero e accade oggi.
Torniamo a guardare la porta. Toccherebbe aprirla ma manca il fiato, la testa gira.
Chiudere una relazione d’amore fa male, so che non è una grande scoperta. È più difficile ancora se era disfunzionale. Esistono coppie dove ingredienti di base sono scomparsi dalla dispensa, a volte tutti insieme: tenerezza, rispetto, passione. Eppure la relazione sopravvive. Perché?
A volte per timore delle conseguenze. Se ci separiamo gli causeremo dolore e ci sentiremo egoisti, cattivi. Guadagneremo di meno, ci permetteremo solo vacanze di terz’ordine, in Puglia i prezzi sono così aumentati. Timore del giudizio, della chiacchiera, che dirà di noi il villaggio? L’angoscia di non farcela da soli: chi cucinerà e pagherà le bollette? E il venerdì sera?
Separarsi, laddove la relazione viva oltre il suo arco di vita naturale, è in questi casi una difficoltà individuale. Se sciogliamo il nodo interno, possiamo dire addio in pace.
È più difficile quando a tenerla in piedi, contro ogni buona ragione, è una struttura di pensiero che ne La via d’uscita definisco «io non ho potere» e «l’altro mi fa». Il quotidiano è diventato uno scambio di grugniti e stilettate, di silenzi o accuse, di sguardi obliqui o al più fissi sul cellulare. Andarsene sarebbe saggio e allora perché si rimane? Perché la mente è focalizzata sul gesto del partner. Mi trascura, mi svaluta, non mi capisce, mi disprezza, mi sfrutta. L’altro mi fa. E quando è davvero così, quando il partner è incapace di renderci felici, la soluzione sarebbe di agire diversamente o girare i tacchi e aprire la porta. Ma se lo sguardo è fisso sull’altro — «quando la smetti di farmi male e mi dai la gioia che mi spetta?» — il cambiamento è impossibile. Sarebbe meglio guardarsi dentro, ma quando lo facciamo leggiamo: sono debole, fragile, finirò male. Dirsi addio in queste circostanze è quasi impossibile. A volte ci si riesce, tra respiri corti e strazi, piatti rotti e urla. Tra dolori e risentimenti. E invece per lasciare andare pacificamente un amore vissuto oltre il tempo concesso dal fato, ormai trasformato in un recinto di rovi, è necessaria un’altra consapevolezza: sì, l’altro mi fa, ma fino a un certo punto. Ho potere di decidere, di superare colpe e vergogne, paure e mancanze di fiato. Allora ci alziamo in piedi, le gambe all’inizio tremano ma poi la porta si avvicina, l’apriamo, vediamo alberi e luci. Il tempo di un ultimo saluto, un sussulto che racchiude nostalgia e rimpianto, rabbia e colpa. E nulla più.