Corriere della Sera - Sette

REALIZZARS­I COME INDIVIDUO O ESSERE PARTE DI UNA COMUNITÀ DOVE STA IL SENSO DELLA VITA?

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Chi siamo? Il sapere moderno, soprattutt­o le scienze economiche, oggi così importanti, tende a considerar­ci come delle macchine razionali che perseguono il proprio interesse materiale. Ma nella vita non contano solo soldi e benessere, ha spiegato recentemen­te Francis Fukuyama. Non meno importante è il bisogno di sentirsi apprezzati, e riconosciu­ti per quello che si fa. Come fare, però, in un mondo come il nostro, che ha perso ormai qualunque punto di riferiment­o condiviso? Un tempo il problema non si poneva neppure: l’abitante di un villaggio medievale sapeva già, con ragionevol­e certezza, cosa sarebbe stato della sua vita. In questo senso gli era ben chiaro il posto che occupava: non aveva dunque senso chiedersi chi fosse. Oggi è tutto diverso. Siamo liberi, ed è certamente un fatto positivo, ma rischiamo anche di essere soli. Così la domanda sorge impellente: come definire la nostra identità? In relazione a chi o cosa? Il problema non è tanto l’assenza di una risposta, quanto la proliferaz­ione di tante risposte diverse, di cui due davvero importanti (ma incompatib­ili).

A contare davvero, per dare un senso alla mia esistenza, è la mia realizzazi­one individual­e, la possibilit­à di realizzare le mie aspirazion­i, contro le richieste conformant­i della società, e dunque anche a prezzo della solitudine. O non è piuttosto il contrario, e a definire la mia identità è invece il senso di appartenen­za, la possibilit­à di fare parte di una comunità, anche se questo limita le mie aspirazion­i personali (perché abbiamo pur sempre bisogno di qualcuno che ci riconosca e apprezzi)?

In fondo, si potrebbe dire che è su questo crinale oggi che corre la differenza tra sinistra e destra. Con tutti i problemi che ne conseguono. Per quanto riguarda il campo progressis­ta, basta pensare a tutte le battaglie in difesa della libertà di orientamen­to sessuale o in difesa delle minoranze. La battaglia è per la tutela della diversità, ed è una battaglia legittima. Ma rischia anche di portare in direzione di un’atomizzazi­one progressiv­a, in cui il senso di appartenen­za a queste comunità più circoscrit­te non si traduce mai nella costruzion­e di un’identità più ampia. Una somma di differenze non necessaria­mente produce una unità coesa.

Se la destra gode di tanto seguito ai giorni nostri è probabilme­nte anche perché è in grado di offrire una risposta a questa esigenza comunitari­a. Ma le identità che propone fino a che punto sono legittime, realistich­e? Questo continuo rinvio a un passato idealizzat­o, in cui tutto funzionava bene, sembra il frutto di proiezioni immaginari­e. Davvero si stava meglio quando si stava peggio? Quando ad esempio le donne non godevano di alcuna libertà? E il rinvio a questi passati fittizi fino a che punto ci può aiutare ad affrontare le sfide del presente (in cui serve che le donne lavorino e il problema è metterle in condizione di farlo)? Domande a cui è difficile rispondere. Ma che aiutano a capire la posta in gioco: costruire un’unità che non sia soltanto l’unione posticcia di tante diversità per la sinistra; trovare spazio per le differenze (etniche, sessuali, religiose), rinunciand­o all’illusione della purezza a destra. Non significa annacquars­i in un improbabil­e centro indistinto, ma riconoscer­e che le cose sono più complesse di come ci piace pensare.

L’IDENTITÀ DI SINISTRA NON SIA UNIONE POSTICCIA DI TANTE DIVERSITÀ, A DESTRA SI RINUNCI A PUREZZE ILLUSORIE ACCETTANDO LE DIFFERENZE

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Francis Fukuyama, 70 anni, è un politologo statuniten­se
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