CHI ERA NAPOLITANO IL COMUNISTA GENTILUOMO FREDDO, MA NON SEMPRE
Èstato un uomo politico di primissimo piano, Giorgio Napolitano. Ma un leader politico, con tutto quello che la lotta per conquistare e mantenere la leadership comporta, no, non lo è stato mai. E neppure aveva mai voluto esserlo, mi confidò una dozzina di anni fa, quando ne stavo scrivendo una biografia e andavo spesso a trovarlo al Quirinale. Non saprei dire se questo fosse un suo limite. Probabilmente sì, se si parla del dirigente comunista: chissà, forse la storia della sinistra sarebbe stata un po’ meno grama se Napolitano, che aveva avuto il coraggio di criticare apertamente Enrico Berlinguer in vita, avesse poi trovato, nella seconda metà degli Anni 80 del secolo scorso, anche quello di organizzare in tempo utile una combattiva corrente di opposizione, forte di personalità di primissimo piano, da Emanuele Macaluso a Gerardo Chiaromonte, da Paolo Bufalini a Gianni Cervetti. Probabilmente no, se si parla del Napolitano che, sconfitto nel suo partito senza aver mai dato veramente battaglia, comincia nel 1992, l’anno di Tangentopoli e del collasso della Prima Repubblica, un percorso nuovo e diverso: quello dell’uomo delle istituzioni e dell’Europa, che inizia con la presidenza della Camera, passa per il Viminale, prosegue con la presidenza della commissione Affari costituzionali dell’Europarlamento, e trova il suo coronamento, nel 2006, con l’elezione a capo dello Stato.
Il fatto è, però, che tra queste due stagioni non c’è una cesura netta. Così come tagli netti, databili con precisione, non ce ne sono nemmeno nella storia di Napolitano “politico”, che transita passo passo dal togliattismo alla socialdemocrazia badando bene però a dare a Togliatti quel che è di Togliatti e cercando sempre di trovare un filo che leghi la parte migliore del passato al presente e al futuro. Si tratta, ovviamente, di due storie diverse, ma non di due storie contrapposte: la seconda non solo non si spiega, ma nemmeno si lascia raccontare, senza la prima. Quel che ha fatto nel bene e nel male Napolitano presidente non malgrado, ma grazie a sessant’anni di vita politica, conclusi certo con una sconfitta senza appello (la ricomposizione del socialismo italiano nell’ambito del socialismo europeo per cui ha lavorato ben prima del fatidico 1989 non c’è stata e non ci sarà mai, la storia è andata in tutt’altra direzione), ma non per questo meno intensi e meno ricchi di insegnamenti.
Ho visto, in tanti anni, qualche suo scatto d’ira, l’ ho sentito pronunciare parole acri e giudizi taglienti, ricordo, per dire, quando venne alle Frattocchie, nei primissimi Anni 70, per una riunione degli studenti comunisti e, sentita la mia relazione, anche se mi voleva un po’ di bene, aprì il suo intervento dicendo che «anche i dirigenti della federazione giovanile hanno il dovere di leggere, studiare e applicare i deliberati dell’Ufficio politico del partito». Ciò non toglie che si considerasse, con una punta e qualcosa in più di autocompiacimento, un atarassico, e dunque un uomo capace di dominare le passioni, di restare freddo e lucido anche nelle situazioni più drammatiche. E proprio qui stava, mi spiegò, la differenza umana e pure politica tra lui e Giorgio Amendola, che pure era stato il suo maestro e il suo mentore sin da quando, correva l’anno 1945, aveva superato le ultime titubanze e, poco più che ventenne, si era iscritto al Pci. Giorgione, Giorgio ‘o chiatto per i comunisti napoletani, era tutto all’opposto di lui, Giorgio ‘o sicco, «passione politica allo stato puro”» Ma quando, sul punto di morire, il passionale Amendola, che era stato ferocemente attaccato da Berlinguer per un suo articolo sulla Fiat in cui aveva contestato la politica dei sindacato e del partito, annunciò ai fedelissimi che non avrebbe rinnovato la tessera del partito, fu l’atarassico Napolitano a convincerlo a cambiare idea.
Storie dell’altro ieri, si capisce, che di questi tempi possono apparire, e forse sono, lunari. Ma che a Napolitano continuavano ad appartenere. Anche quando, appena diventato ministro degli Interni, mi disse, in un’intervista per il Corriere, che il suo primo approccio con dicastero risaliva al luglio 1948, quando venne manganellato dalla polizia di Scelba: «Ma non mi successe nulla di grave, solo un bernoccolo in cima alla testa», spiegò facendo ricorso all’abituale understatement. E anche nei giorni in cui, al Quirinale, faceva ri
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corso, come scrisse ammirato il New York Times, alla sua «barocca cultura istituzionale» per indurre alle dimissioni Silvio Berlusconi e incaricare Mario Monti di formare un nuovo governo. Una sera, nel poco tempo che un’infinità di telefonate e riunioni gli lasciava libero, cominciò ad elencarmi con la voce incrinata dalla commozione dei nomi che all’inizio almeno non mi dicevano nulla, Giorgio Quadro, Giuseppe Rippa... Erano i nomi degli operai comunisti napoletani, spesso licenziati per rappresaglia politica dalle loro aziende, che gli avevano fatto da maestri quando il segretario Salvatore Cacciapuoti lo aveva spedito, come nel Pci si usava fare con i giovani intellettuali di provenienza borghese, alla scuola della classe operaia. E non si trattava solo di ricordi di gioventù. Ormai non ce n’è quasi più memoria. Ma il 1°maggio del 2007 fece qualche scalpore la sua decisione di sconvolgere il tradizionale copione della cerimonia per il conferimento delle Stelle al merito del lavoro: si fece preparare un elenco di persone che sul lavoro erano cadute, sulle loro morti e sulle loro vite, ne invitò al Quirinale i congiunti. Vennero tutti, meno quelli di uno stuccatore napoletano settantatreenne, morto durante la ristrutturazione di uno stabile del centro. Il vecchio presidente ne parlò commosso, quasi come di un conoscente: «Non so quanto prendesse di pensione, certo era stato spinto a lavorare ancora, in nero, dal bisogno, e forse dall’impulso a sentirsi ancora attivo, non isolato ed escluso». Retorica? Neanche un po’. Come non lo fu la sua attenzione al tema del carcere e dei carcerati, che lo avvicinò più di quanto si creda a un uomo politico che per tanti anni aveva cordialmente detestato, Marco Pannella.
Alla fine del suo settennato, tutto avrebbe voluto, ne sono certo, fuorché essere rieletto e restare altri tre anni al Quirinale. Cercò di resistere anche quando risultò chiaro che i Grandi Elettori si erano incartati, cedette solo quando tutti i leader salirono al Colle con il cappello in mano per scongiurarlo. E cosa pensasse di loro fu chiaro agli occhi di tutti gli italiani che assistettero, in tv, al suo messaggio: più Napolitano maltrattava i suoi elettori, più quelli lo applaudivano. Cominciò, in quei giorni, il periodo più difficile e triste della sua lunga viva. Aveva sperato, nel luglio nel 2006, che la sua presidenza coincidesse con le riforme istituzionali ed elettorali necessarie perché il nostro bipolarismo selvatico diventasse finalmente una democrazia dell’alternanza civile e matura, e ora doveva restare al suo posto per cercare di gestirne l’agonia. Anche i suoi critici più severi – lasciamo pure alla loro barbarie gli odiatori seriali – dovrebbero convenire che questo proprio non lo meritava.
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LA SENSIBILITÀ VERSO LA SITUAZIONE DELLE CARCERI LO AVVICINÒ A PANNELLA, PER TANTI ANNI CORDIALMENTE DETESTATO