«IO, UN CRIMINALE ONESTO» LA FRASE-TESTAMENTO DEL BOSS COME A DIRE: NON UCCIDO BAMBINI
La foto che ho scelto per la rubrica di questa settimana mostra il cimitero di Castelvetrano e in particolare il mausoleo della famiglia Messina Denaro. È qui chè è stato sepolto il boss lo scorso mercoledì 27 settembre. Un uomo, Matteo Messina Denaro, che ha fatto della conttraddizione la cifra della sua intera esistenza.
Matteo Messina Denaro ci ha lasciato, prima di morire, un documento di inestimabile valore e non solo per chi studia le organizzazioni criminali. È un documento che dovrebbe essere raccontato anche e soprattutto a chi non ha dimestichezza con le dinamiche mafiose, perché sia chiaro come gli affiliati e i capi descrivono sé stessi, come si considerano e vogliono essere ricordati. Il testamento di Matteo Messina Denaro è l’interrogatorio che il boss ha reso al procuratore di Palermo Maurizio De Lucia lo scorso febbraio; reso pubblico quasi interamente ad agosto. Ma perché questo documento lo si può considerare il suo testamento? Perché è malato, sa che non gli resta molto da vivere e ha la necessità di chiarire definitivamente una serie di questioni rimaste – nella sua opinione – per troppo tempo monche della sua versione.
Ma partiamo dal principio. Questo interrogatorio è una sorta di prisma, nel senso che le risposte assumono un significato diverso a seconda della prospettiva da cui le si analizza. Una premessa: Matteo Messina Denaro apparteneva ai vertici di Cosa Nostra; probabilmente, quando è stato arrestato, addirittura era il capo di Cosa Nostra. Secondo altre interpretazioni, Messina Denaro avrebbe tentato, fino alla fine, di non essere identificato come il capo; quel che è certo è che stiamo parlando di un uomo d’onore e un uomo d’onore non risponde mai e poi mai, per regola, alle domande di un giudice. Ma è sempre così? Siamo davvero certi che non abbia detto nulla? No. E anzi, ha detto molto più di quanto a prima vista possa sembrare.
«Ci saranno cose in cui non rispondo, cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo, e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere». Sembra una frase da niente, una cosa detta così, senza significato, eppure questa affermazione di Messina Denaro è pregna di senso, è la regola dell’uomo d’onore: la regola dell’omertà. E qui arriva, diretta, la domanda diretta del procuratore: «Lei è un uomo d’onore?». La risposta potrebbe sembrare scontata, ma non lo è: «No. (…) No, io mi sento uomo d’onore nel senso di altri… Non come mafioso». Per comprendere questa risposta dobbiamo tenere presente
NELL’INTERROGATORIO DI FEBBRAIO AL PROCURATORE DE LUCIA LASCIÒ INTENDERE CHE LO FECE RAPIRE, NON AMMAZZARE
che un uomo d’onore non può mai dire di esserlo, nemmeno se a chiederglielo è un altro uomo d’onore. Per regola secolare di Cosa Nostra, un uomo d’onore può presentarsi come tale a un altro uomo d’onore solo in presenza di una terza persona, uomo d’onore a sua volta, conosciuta da entrambe e che userà una formula rivolgendosi a tutti e due: «Stessa cosa». Ci sono uomini d’onore che condividono per anni la cella con un altro uomo d’onore, ma non essendo mai stati presentati non possono rivelarsi come affiliati.
Messina Denaro, quindi, come da regola, afferma di non essere stato “combinato” uomo d’onore, nega di appartenere a Cosa Nostra e dichiara di aver sentito nominare Cosa Nostra solo dai giornali e in televisione. Ma aggiunge: magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa Nostra. E stragi? Omicidi? Traffico di stupefacenti? Commesso niente? La risposta è «no, mai, nella maniera più assoluta». Eccola l’omertà classica che metterà il boss in contraddizione per tutto l’interrogatorio, in una sorta di tensione mistica tra un continuo disvelamento e la consapevolezza che chi ti ascolta sa perfettamente chi ha davanti ed è pronto ad accogliere qualunque elemento, anche il più piccolo, che possa essere utile alle indagini.
E qui il capolavoro. Messina Denaro si definisce un «criminale onesto» che non tocca chi è estraneo all’organizzazione. Vuole riportare verità, la sua verità, sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo. Non è stato lui a decretarne la morte; lui aveva orchestrato il rapimento, ma la morte no. Ma non aveva detto che non conosceva Cosa Nostra, che non aveva mai partecipato a nulla che riguardasse l’organizzazione criminale, che non ne conosceva gli affiliati ed era del tutto estraneo alle sue attività? Ora dice di un rapimento ordito affinché il padre del bambino, affiliato anch’egli, ritrattasse quanto rivelato agli inquirenti. Eccola la contraddizione. Così comunicano gli affiliati, in un mondo dove non valgono le nostre leggi, ma solo le regole. Vi sembrerà assurdo ma le regole da loro seguite, le contraddizioni in cui si muovono sono anche le nostre. Ecco perché bisogna studiare le organizzazioni criminali: attraverso loro capiamo il mondo in cui viviamo.
LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI SEGUONO LE LORO REGOLE. CHE SONO ANCHE LE NOSTRE, SERVONO A CAPIRE IL MONDO