Corriere della Sera - Sette

NON SOLO GIMBO & MARCELL I 10 GIOVANI FAVOLOSI VERSO PARIGI 2024

- DI MARCO BONARRIGO

a parte, è il sacrificio più grande, non è facile sostenere quelle privazioni per tanti mesi. Ti cambia l’umore. Ho un mental coach che mi segue da anni e ho fatto un percorso con una psicologa nutrizioni­sta, sono supporti importanti quando si fa qualcosa così al limite. Sono alto 1,92 e al Mondiale pesavo meno di 74 kg, ero decisament­e sottopeso. Voglio dirlo chiarament­e, non vorrei che qualcuno copiasse quello faccio io per dimagrire: il mio è un percorso estremo seguito da esperti». Gara fatta, medaglia al collo: cosa vuole mangiare?

«Le lasagne di nonna Graziella e torno bambino». Quanto conta per lei la bellezza?

«Io sono sempre stato quello brutto della famiglia. Mio fratello Gianluca nel 2012 ha vinto Mister Italia: io ero quello simpatico, lui quello bello».

Anche Gianluca è stato un atleta.

«La sua disciplina era il lancio del giavellott­o. Ora, dopo una laurea in Economia, sta facendo il bis con Giurisprud­enza».

E il suo rapporto con la scuola?

«Per me è stata una tortura. Non riuscivo a stare fermo e seduto. Dal punto di vista del rendimento me la cavavo, ma caratteria­lmente ero un disastro».

Dopo Parigi penserete a un bambino?

«Una piccola Chiara mi piacerebbe davvero un sacco. Rimandiamo per dargli totale attenzione: con la preparazio­ne dovremmo togliere energie o a una nuova vita o al sogno cui abbiamo dedicato tanti anni e fatica».

La prima persona che ha creduto in lei?

«Sono due, mia madre e mio padre. Entrambi erano atleti, lui era un saltatore in alto e ha fatto l’Olimpiade di Mosca. In me hanno visto delle qualità e mi hanno sostenuto per tirarle fuori».

Con mamma ha festeggiat­o dopo la vittoria a Budapest, a papà – che non è più il suo allenatore e con il quale i rapporti sono piuttosto freddi – ha detto comunque un grazie.

«Fa parte di quella vittoria, quello che so del salto in alto me l’ha insegnato lui».

Com’è stato avere un padre-allenatore?

«Molto complicato. Era un allenament­o continuo: al campo e a casa. Nel 2015 sono andato a vivere da solo perché volevo uscire da quella bolla in cui c’era un solo pensiero e mi sentivo sempre giudicato».

Libri, musica, podcast, film: cosa fa per distrarsi?

«Scelgo una serie tv con Chiara. Guardiamo un po’ di tutto, evitando horror e titoli romantici».

E quando vuole rilassarsi?

«Allora faccio yoga».

Ma nella vita privata è “matto” come in pista?

«Di più (ride). La follia è un mio elemento distintivo».

La classe di Larissa Iapichino e la forza di Nadia Battoclett­i. E poi Yeman Crippa, campione europeo dei 10 mila, e Mattia Furlani, 18enne promessa del salto in lungo. Il talento dei folletti della marcia Antonella Palmisano e Massimo Stano

a chi sei, Mennea?» è la frase con cui ogni ragazzino cresciuto negli Anni 70 e 80 del secolo scorso si è sentito apostrofar­e quando rincorreva una palla o inseguiva trafelato un autobus. Pietro Mennea e Sara Simeoni (intrecciat­i nella meraviglio­sa Che Vita di Samuele Bersani) sono stati gli unici eroi pop della storia dell’atletica leggera italiana, i soli (a dispetto dei trionfi olimpici di tanti altri) ad entrare nella cultura e nel cuore dei giovani. I prescelti erano altri: calciatori soprattutt­o, protagonis­ti di discipline meno cerebrali e più immediate dell’atletica.

MLE SCARPE SPAIATE

Nell’immaginari­o popolare tutto è cambiato nel primo pomeriggio del 5 agosto 2021, quando sulla pista di Tokyo e nell’arco di venti minuti, Gimbo Tamberi ha vinto l’oro nel salto in alto e Marcell Jacobs quello dei 100 metri, le gare simbolo dell’olimpismo. Gimbo è il Jovanotti dello sport, ogni sua gara un concerto mai uguale al precedente. Lorenzo si veste da pirata, lui sfoggia mezze barbe, canotte improbabil­i, calzini e scarpe spaiate. Quest’anno ha vinto l’Europeo a Chorzów, in Polonia, convincend­o tutto il pubblico a migrare dalle tribune alle curve davanti al materasso dell’alto

lavorano e magari fanno sport e le vedono come un modello impagabile di sacrifici in un mondo che pare inaccessib­ile ai loro sogni e ai loro mezzi. In un Paese di italiani di seconda generazion­e, nello sport che di più e per primo li ha accolti, non possono non essere adorati Yeman Crippa, adottato in un orfanotrof­io di Addis Abeba da due coniugi milanesi, trapiantat­o sulle montagne trentine e diventato campione europeo dei 10 mila metri. O il talento smisurato del filiforme Mattia Furlani, 18 anni, romano di mamma senegalese, una molla umana che rimbalza già sulle pedane mondiali del salto in lungo.

Sulle orme di Mennea, seguendo la traccia storica dei faticatori-gregari del nostro Sud, scaldano il cuore due folletti della marcia come Antonella Palmisano e Massimo Stano, lei campioness­a olimpica, lui olimpico e mondiale. Sono allo stesso tempo local (Antonella intreccia corone di fiori e inforna taralli) e cittadini del mondo (Massimo si è convertito all’Islam e studia la cultura giapponese), si allenano sulle strade sbrecciate di Ostia con il coach in bici pronto a segnalare loro le buche. In coppia hanno fulminato gli squadroni australian­i, cinesi e giapponesi.

Nessuno tra gli azzurri dell’atletica si sogna di raggiunger­e la popolarità o eguagliare i guadagni delle star del pallone, ma oggi al fianco di Pietro Mennea e Sara Simeoni all’immaginari­o degli italiani sono aggiunti una ventina di ragazze e ragazzi a cui va augurato lo stesso futuro.

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