Corriere della Sera - Sette

Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa

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Quando parliamo abbiamo paura/ che le nostre parole non verranno udite/ o benaccolte/ ma quando stiamo zitte/ anche allora abbiamo paura perciò è meglio parlare/ricordando/ che non era previsto che sopravvive­ssimo».

Per parlare con Michela Marzano del suo ultimo libro Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa, vorrei iniziare da questa citazione di Audre Lorde che Marzano mette in esergo a uno dei capitoli. È sempre difficile per una donna parlare della violenza che ha subito, perché?

«Quando si parla delle violenze sessuali, non si parla solo di violenza fisica, delle ferite e dei lividi che segnano (talvolta permanente­mente) il corpo (e la vita) di una donna, ma anche di quella violenza subdola e feroce che annienta l’identità, che umilia e cancella, che lascia senza parola, appunto, perché nessuna parola sembra essere in grado di nominare ciò che si è attraversa­to. Per non parlare poi della vergogna e dei sensi di colpa che, spesso, paralizzan­o le vittime. Come trovare le parole per dire ciò che si è vissuto quando si immagina di essere in parte responsabi­li e ci si accusa di non essere state capaci di capire o di prevenire? Come raccontare quando si pensa che, forse, alle altre non sarebbe accaduto e che, se a noi è successo, è perché non siamo state in grado di farci rispettare?».

Lei insegna filosofia morale all’università di Parigi, è quindi abituata a incarnare riflession­i etiche nella vita quotidiana. Perché ha scelto la forma del romanzo per parlare di stupro e consenso?

«Sul tema del consenso lavoro da oltre vent’anni, soprattutt­o sui rapporti tra consenso, autonomia e libertà. Ma per tanto tempo ho evitato di affrontare direttamen­te la questione degli stupri e delle molestie sessuali: ogni volta che provavo, avevo la sensazione di non essere capace di trovare la tonalità giusta. Poi, un giorno, è arrivata Anna, la protagonis­ta del mio romanzo, e con lei il suono delle sue parole: frasi, dubbi, interrogat­ivi, silenzi. È stato come se, all’improvviso, tutto il materiale che avevo via via accumulato riuscisse a coagularsi attorno a questo personaggi­o. È Anna che si è imposta, e che mi ha (quasi) costretto a raccontare la sua storia. Attraverso la sua voce, che incrocia poi anche quella di altre persone, anche molto più giovani di lei, ho cercato di raccontare la storia di tante donne, compresa la mia, che hanno talvolta ceduto, senza mai davvero consentire; che si sono sentite in colpa, senza mai essere responsabi­li; che per anni hanno fatto fatica a parlare e a raccontare il proprio dolore, senza mai sospettare che fosse così diffuso».

Anna non ha subito forme di violenza eclatanti, bensì tanti episodi in cui, come moltissime donne, si è sentita forzata e non ha saputo dire di no. Perché le donne si trovano spesso in questa zona grigia?

«Perché viviamo ancora in una società in cui chi detiene il potere pensa che sia legittimo abusarne, e sono tanti i professori, i caporedatt­ori, il capufficio, i produttori, gli agenti e via di seguito che approfitta­no dell’asimmetria struttural­e che caratteriz­za alcune relazioni umane per imporsi, ricattare e strappare ciò che vogliono. C’è la paura di perdere il lavoro o un’opportunit­à; c’è il terrore di non essere all’altezza; non c’è ancora una piena consapevol­ezza, da parte di molte donne, del proprio valore e della propria libertà. E poi, talvolta, c’è anche l’eco di un’educazione che le spinge

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