SE I RIFERIMENTI AL “GENERE” CREANO DISEGUAGLIANZE PROVIAMO A CAMBIARE INSIEME
Sempre più spesso i riferimenti al gender (o genere in italiano) sono occasione per polemiche becere. Quando invece si tratta di temi delicati, e sarebbe utile (nonché interessante) cercare di capire cosa ci sia in gioco. Tutto gira intorno alla distinzione tra sesso e genere: tra una distinzione naturale tra sesso maschile e sesso femminile e la distinzione culturale tra femmine e maschi. La distinzione naturale tra maschi e femmine, lo stiamo imparando ora, è in realtà meno lineare di quanto non si pensi – e si potrebbe discutere fino a che punto distinzioni troppo rigide riescano a rendere conto in modo adeguato della ricchezza dei fenomeni naturali. È un problema filosofico appassionante, perché mette in discussione la legittimità stessa delle classificazioni, di cui sarebbe bello prima o poi discutere con calma.
Quello che invece dovrebbe essere chiaro è che troppo spesso le distinzioni di genere (tra il genere maschile e quello femminile) non hanno nessun appiglio naturale (qualunque cosa significhi natura, altro problema complesso). Sono piuttosto il risultato di pregiudizi e abitudini. Per chi, come noi italiani, si è formato leggendo nei Promessi sposi la storia della monaca di Monza dovrebbe andare da sé. Forti delle nostre convinzioni su cosa vogliono le ragazze e su cosa vogliono i maschi, li abbiamo educati in modi diversi, attribuendogli colori, giochi, inclinazioni differenti, redarguendoli quando non accettavano di rispettare regole che altri avevano deciso per loro. E ci stupiamo poi che alle bambine piacciano le principesse e ai bambini i supereroi? Sembrano passatempi innocui: intanto si diffonde un’idea molto maschile di società in cui alle donne tocca una posizione subordinata (e uno inizia a simpatizzare con la monaca di Monza, che questa posizione non l’ha mai accettata). Ma davvero è nella natura delle donne il rifiuto, la mancanza di interesse per un coinvolgimento più attivo nella vita della società? O non è soltanto una conseguenza del modo in cui la società si è organizzata?
S’inizia così a capire perché, come scrive Judith Lorber in un piccolo saggio tanto provocatorio quanto interessante (Oltre il genere ,Il Mulino), sarebbe il caso di provare a eliminare i riferimenti al genere. Perché creano e perpetuano diseguaglianza. Un esempio banale: cosa succederebbe eliminando questi riferimenti al genere maschile o femminile quando si manda un curriculum?
La risposta s’impone – per chi non sia così ingenuo (o disonesto) da pensare di essere in grado di valutare gli altri in modo assolutamente obiettivo, senza farsi condizionare da pregiudizi forti di secoli. Pregiudizi che hanno costretto le donne in una posizione subordinata e che ancora oggi si traducono troppo spesso in salari più bassi. Sostenere che la distinzione tra uomini e donne ha lo stesso valore di quella tra biondi e mori, o alti e bassi, può suonare fin troppo provocatoria, e in parte forse lo è. Ma, se non altro, provare a sospendere i riferimenti al genere ha il vantaggio di costringerci a ripensare le regole del nostro vivere in comune. Al di là delle parole di circostanza e dei buoni propositi, quale società vorremmo? Ecco un tema di cui varrebbe la pena di discutere, evitando polemiche becere.
LO SPUNTO ARRIVA DA UN SAGGIO DI JUDITH LORBER: CHE COSA SUCCEDE SE IN UN CURRICULUM NON SI FA RIFERIMENTO A MASCHILE O FEMMINILE?