LA STORIA BELLISSIMA DELLA NOBEL KARIKÓ E UNA LEZIONE PER NOI
Èfacile incolparli, ripeterci che sono stupidi – ci disse Katalin Karikó riferendosi a chi, in piena pandemia, contestava un vaccino “comparso dal nulla” –. Noi dobbiamo educare le persone, spiegare che cos’è la biologia molecolare, come vengono sviluppati i vaccini... Certo che avremmo preferito andare passo passo, ma quando gli ospedali di Brooklyn riempiono i camion-frigo di cadaveri perché non sanno più dove metterli, come puoi procedere a velocità di crociera? L’uso dell’Rna messaggero è in fase avanzata per così tante malattie».
La nostra giornalista Mara Gergolet aveva incontrato e intervistato KK, come viene chiamata, il 30 novembre 2021, a Milano, dove la biochimica ungherese era venuta per inaugurare l’anno accademico dell’Humanitas e riceverne la laurea honoris causa. Con Mara, noi di 7 la inseguivamo da mesi. Come molti, finalmente, avevamo compreso la grandezza commovente del suo lavoro, per anni portato avanti nella solitudine e spesso nello sconforto. Quando era ancora solo in lista per il premio Nobel della medicina, che ha conseguito in questo 2023 assieme all’immunologo americano Drew Weissman, aveva già parlato di «redenzione» guardando al suo passato e ammesso di sentirsi così felice «da aver quasi paura di morire». La storia personale di Karikó, la sua lunga battaglia per veder approvati e distribuiti universalmente «farmaci come quelli che ho contribuito a creare», le sue parole mai aggressive verso il fronte no vax ci offrono una ragione di speranza in ciò che siamo e potremmo diventare: esseri umani consapevoli di rappresentare – nel bene, nel male – i signori dell’Antropocene, dai quali dipenderà la sopravvivenza della specie su un Pianeta
che abbiamo mandato in tilt. Nella loro rubrica a pagina 40, uno spazio di riflessione sempre profondo e sorprendente, Anna Meldolesi e Chiara Lalli tornano sull’assegnazione dei Nobel e sul valore di questa vittoria in particolare: sia per la biografia di Katalin Karikó (cominciò a sintetizzare l’RNA nel centro di ricerca biologica di Szeged, prima di accettare trentenne un invito a Philadelphia dove riuscì a volare a metà dei sovietici Anni 80 vendendo un’auto usata e nascondendo i soldi in un peluche), sia per l’effetto che potrà avere il riconoscimento del suo valore su schiere – speriamo! – di aspiranti giovani scienziate.
Ma forse qui ha senso, ancora una volta, ricordare le lezioni della pandemia, che sembriamo aver sepolto nella polvere alzata per ricominciare a correre scomposti in avanti, in qualunque direzione, via dalla paura. Abbiamo rimosso quei camion-frigo e noi stessi mascherati in coda davanti ai centri vaccinali, gli anziani morti in isolamento e i ragazzi abbandonati a bruciarsi l’adolescenza nell’inganno di realtà virtuali. Abbiamo rimosso quanto la ricerca connessa alla salute sia, più di ogni altra conquista, l’architrave di vite libere e sostenibili. Da una parte ci conforta aver sperimentato quanto i vaccini mRNA siano efficaci (nell’attesa di nuovi, con lo stesso codice, contro la tubercolosi, il cancro, l’Hiv, la malaria). Dall’altra dovrebbe spaventarci la crisi del Sistema sanitario nazionale che il Covid ha messo a nudo più di ogni altro evento. E dovrebbe indignarci la trasformazione del SSN, cioè un’opera di civiltà, nell’«industria della salute» – secondo la definizione che venne data 40 anni fa in America e che il professor Giuseppe Remuzzi ha riproposto. Un sistema che risponde sempre più ai bisogni degli azionisti e sempre meno a quelli degli ammalati.
LA SALUTE È UN DIRITTO ALLA BASE DELLA LIBERTÀ. IL SISTEMA SANITARIO NON PUÒ DIVENTARE “UN’INDUSTRIA DELLA SALUTE”