«LA VERITÀ NON È POPOLARE MA VA GUARDATA E VOGLIO RISPETTO PER I SEGNI SUL MIO VISO»
L'attrice arriva sugli schermi con un film di cui è regista. Racconta le migliaia di profughi bloccati alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, suo Paese natale: «L'ho girato con il telefonino, per essere più agile. I social distorcono il reale? Se li usiamo bene, sono una strada per aprire mondi. Dobbiamo riprenderci il modo di rappresentare la realtà»
Nella tradizione ebraica il dibbuk è lo spirito sospeso tra mondo dei vivi e regno dei morti che si appropria di un corpo per chiudere una storia irrisolta. «Era novembre 2021» racconta Kasia Smutniak, «con Diego Bianchi lavoravamo a un reportage sui migranti bloccati tra Polonia e Bielorussia. Ricordo una sera di nebbia, giornalisti da tutto il mondo venuti a raccontare qualcosa che nessuno vedeva perché le autorità polacche impedivano l’accesso alla zona rossa. Scesi dalla macchina e la prima cosa che mi colpì di fronte a quella folla indaffarata e già annoiata fu un assurdo silenzio. Solo a un centinaio di metri c’erano persone che rischiavano la vita nel bosco, al freddo, e cosa si faceva per aiutarle? Non avevo mai incontrato prima un’indifferenza simile eppure la percepii in modo inspiegabile, personale, fisico. La riconobbi». Per il dibbuk la storia non finiva lì.
Mesi dopo, Kasia torna. La zona rossa è sempre inaccessibile, una striscia di terra larga da tre a sei chilometri e lunga 186, sulla frontiera che separa la Polonia dalla Bielorussia ultima dittatura d’Europa. È una striscia militarizzata, sorvegliata con droni e sensori notturni, dove non sono ammessi giornalisti né volontari. Dal luglio 2022 su questo confine dimenticato sorge una barriera di acciaio e filo spinato alta 5,5 metri nel bel mezzo della Puszcza Białowieska, foresta vergine patrimonio Unesco, antico regno di zar e bisonti. Una distesa di alberi plurisecolari e paludi che d’estate non dà acqua da bere e d’inverno gela. Qui dal 2021 il regime bielorusso spedisce famiglie afghane, irachene, siriane attratte con l’inganno di un visto a pagamento e di un passaggio sicuro per la libertà. «Quando a Ferragosto di quell’anno è caduta Kabul abbiamo visto tutti le immagini delle persone aggrappate agli aerei che cadevano nel tentativo di fuggire. Non era difficile immaginare che prima o poi quella gente sarebbe arrivata da noi». Migliaia di donne, anziani e bambini si ritrovano in trappola, portatori inconsapevoli del mes
CHI È
LA VITA Kasia Smutniak è nata in Polonia 44 anni fa. Figlia di un ex generale dell'Aviazione, ha il brevetto di pilota ed ha cominciato a lavorare come modella. Ha sfilato per i brand più importanti sulle passerelle di tutto il mondo. Ha esordito sul set nel 2000 con il film Al momento giusto, diretto da Giorgio Panariello. Tra i suoi film più importanti Caos calmo (Grimaldi, 2008),
Allacciate le cinture (Ozpetek, 2014) e Perfetti
sconosciuti (Genovese, 2016).
saggio intimidatorio e destabilizzante rivolto dal dittatore Aleksandr Lukashenko e dal presidente russo Vladimir Putin all’Occidente, abbandonati senza assistenza e respinti dalla guardia di frontiera polacca con idranti e gas lacrimogeni. Nel suo lavoro di debutto alla regia, il documentario Mur che dopo la prima mondiale al Toronto International Film Festival sarà presentato nei prossimi giorni alla Festa del Cinema di Roma e dal 20 ottobre arriva nelle sale, Kasia Smutniak cerca il Muro che nessuno doveva vedere, e ne ritrova molti altri.
«Da bambina passavo le estati a giocare davanti alla casa dei nonni a Lodz, costruita sulle macerie del ghetto. La casa stava di fronte al cimitero ebraico, a duecento metri c’erano le rotaie da dove durante la Seconda guerra mondiale partivano i treni per i campi di sterminio. Quando sono tornata per le riprese ho trovato tutto com’era: il
«LA POLONIA E TUTTI I PAESI DELL'EST HANNO UNA STORIA DIFFICILE SEGNATA DAL SANGUE, IO SENTO DI FARNE PARTE»
muro di mattoni, una panchina… tutto tranne due finestre che avevo sempre visto dalla strada, mentre ora sono murate. Mi hanno spiegato che in realtà erano state chiuse subito dopo la guerra, eppure io sapevo che all’interno c’era una stanza con le pareti verdi e una scrivania…».
Classe 1979, figlia unica di un generale dell’aeronautica militare che le trasmette la passione per il volo tanto che a sedici anni otterrà il brevetto da pilota, Kasia cresce tra le grandi trasformazioni che negli Anni 80 spianano la strada al sindacato Solidarnosc e alla caduta del regime comunista nel 1989. È la Polonia che rimette in moto l’orologio della storia congelata nella Guerra fredda, che prega papa Wojtyla e segue Lech Walesa, sogna l’America e si apre all’Europa. Dalla fine degli Anni 90 Kasia sceglie l’Italia dove diventa stimata attrice di cinema e tv. Oggi è impegnata in progetti come la onlus intitolata a Pietro Taricone, il compagno morto in un incidente di paracadutismo nel 2010, che ha dato una scuola ai bimbi dell’ “ultimo Tibet”, il Mustang in Nepal. Altri confini, altri attraversamenti. Dal 2019 è sposata con il produttore Domenico Procacci.
Non si può fare a meno di tornare al passato per raccontare chi siamo diventati.
«Il presente senza passato è finzione. Quando si è giovani si danno per scontate tante cose, più andiamo avanti più abbiamo bisogno di capire. Vengo da una famiglia di militari e quando ero piccola ci spostavamo spesso, il fatto di non aver avuto una vera e propria casa dell’infanzia mi ha spinto da adulta a tornare in cerca delle radici. La Polonia e tutti i Paesi dell’Est hanno una storia difficile segnata dal sangue, tu ne fai parte anche se sei di passaggio, anche se i fatti più dolorosi non ti hanno coinvolto direttamente. Sono posti pieni di memoria, che conservano il ricordo di ghetti e campi di sterminio, tracce degli eventi più tragici e vergognosi della storia umana».
Per questo ha scelto di raccontare in prima persona e dal confine polacco-bielorusso un fenomeno epocale come le migrazioni?
«Mi sono chiesta: perché le vicende di allora e queste di oggi mi toccano così tanto, perché sono diventate un’ossessione? Attraverso me stessa vo
levo analizzare il punto di vista di tutti noi, quelli che “non c’entrano” eppure sono partecipi, che dalle seconde file vedono e soffrono per ciò che accade in Polonia come a Lampedusa e vorrebbero fare qualcosa ma si sentono impotenti. Io avevo questa possibilità, ho tentato di capire la genesi del male e di guardare dentro una paura che in fondo ci accompagna già da molto tempo. Prima gli attentati delle Torri gemelle, poi l’epoca del terrorismo, la crisi economica, il Covid ci hanno abituato a convivere con la paura nei confronti del prossimo e delle culture diverse, del futuro. Non sono una reporter ma so raccontare le emozioni, così, senza una troupe ma solo con i telefonini e un’attrezzatura leggera, ho puntato “la telecamera” su di me e ho cominciato a girare. Volevo arrivare al muro a tutti i costi, raccontare la sofferenza e il coraggio di persone che hanno dovuto scegliere».
E la sua paura di seguire in situazioni di pericolo chi sfida la legge per salvare le vite degli altri e la propria coscienza?
«Più che il timore reale di farmi male o di essere arrestata o dei cani che ti inseguono nel bosco, sentivo la responsabilità per la sicurezza della persona che era partita con me, Marella Bombini, co-autrice del progetto, che non parlava polacco e si ritrovava in un contesto decisamente rischioso. Ancora di più temevo di non essere forte abbastanza per arrivare fino in fondo; di non farcela più a vedere tanta disperazione e violenza, bambini piccoli lasciati morire di notte nella foresta..». Si ferma. «Avevo paura di ritrovarmi davanti a una scelta, spegnere la telecamera e non tornare più indietro».
Ad oggi non si conosce il numero esatto delle vittime perse in quel mare d’alberi.
«No, l’unica speranza di queste persone è la rete clandestina di volontari e attivisti che aspettano messaggi sul cellulare e partono a qualsiasi ora per provare a raggiungere chi è in difficoltà. Uno di loro, che racconto nel film, fa il muratore, è divorziato con tre figli e non ha nemmeno l’auto, eppure non ha esitato un attimo. Un altro fa l’interprete e ha messo a disposizione la sua conoscenza dell’arabo andando persino ad abitare sul
MUR é un film di Kasia Smutniak
prodotto da Domenico Procacci, Laura Paolucci, Kasia Smutniak. Scritto da Kasia Smutniak e Marella
Bombini.
Una produzione Fandango in associazione con Luce Cinecittà. Nelle sale dal 20 ottobre distribuito da Luce Cinecittà
Il film verrà presentato il 19 ottobre alla Festa di Roma 2023 e successivamente al 44° Festival Cinema
e Donne Firenze confine. Un’altra è un’artista e per aiutare gli altri ha rivoluzionato la propria vita. Ognuno si porta dentro una ferita ma non tutti lo sanno».
Un trauma che l’Europa prima o poi dovrà elaborare, lo stesso raccontato da Agnieszka Holland in Green Border, il film premiato a Venezia e criticato dalla politica a Varsavia. Le autorità hanno dato una risposta molto diversa all’altra grande crisi che il Paese vive in modo terribilmente concreto, l’Ucraina.
«Appena è scoppiata la guerra, da noi si è creato un movimento spontaneo capace di superare ogni difficoltà per accogliere i profughi. A tutti i livelli. Chiunque sentissi in quei giorni era impegnato a fare qualcosa per dare una mano. Negli stessi momenti poco più a nord del confine con l’Ucraina la polizia continuava a respingere ragazzi che imploravano aiuto, donne incinte, malati, persone con disabilità. Si era creata una barriera naturale tra due realtà ed è stato quello il primo muro che mi ha convinta a partire».
Il 15 ottobre la Polonia vota dopo otto anni che
«MENTRE GIRAVO NEI BOSCHI HO TEMUTO DI NON RIUSCIRE PIÙ A VEDERE TANTA VIOLENZA. DI SPEGNERE LA TELECAMERA»
hanno profondamente segnato la società, oggi divisa su tutto: lettura del passato e progetti per il futuro, diritti delle donne, famiglia, ambiente, rapporti con l’Unione europea. Proprio guerra e immigrazione sono finite al centro di una campagna elettorale brutale.
«Il muro per fermare i migranti è diventato il tema principale e questa campagna è stata piena di colpi bassi, dominata dal populismo e da un linguaggio che semplifica anziché aiutare a riflettere sulle cause delle crisi. Siamo in un momento di fragilità conseguenza della guerra e può bastare davvero poco per trasformare in un attimo i rifugiati ucraini in un problema politico, in un gruppo da prendere di mira. È una fase molto pericolosa».
«LAVORARE SULL'IMMAGINE DÀ UNA GRANDE RESPONSABILITÀ, COME POSSO TRASMETTERE FORZA SE IO PER PRIMA NON SONO SINCERA?»
Lei andrà quindi a votare?
«Certo e spero in un cambio di rotta. Siamo sempre stati un Paese strategico per l’equilibrio tra Russia e America, da queste elezioni dipende molto anche per la nostra Europa unita e senza confini. Chissà se quell’Europa esiste ancora». Video di denuncia e richieste di aiuto viaggiavano e viaggiano tuttora su
Facebook e TikTok: la stessa costruzione del documentario dimostra le grandi potenzialità di uno strumento che spesso facilita la distorsione del reale. I social sono conciliabili con la verità?
«Basta che lo vogliamo. Cogliere questa possibilità significa aprire mondi. La verità non piace a nessuno, non è popolare, ma se vogliamo davvero arrivarci i social possono essere una strada». Anche nella rappresentazione del corpo e della bellezza che cambia?
«Dobbiamo riprenderci il modo di rappresentare noi stessi. Prima ero più timida ma oggi esigo rispetto per i segni che porto sul volto. Sono io e nessun altro a decidere come raccontare il mio corpo. La mappa delle emozioni è la nostra storia».
Nessun filtro dunque, come nelle foto di Riccardo Ghilardi che ospitiamo in copertina e in pagina e che esaltano le discromie della pelle. Una scelta di libertà condivisa da personalità molto diverse, da Kesha a Lady Gaga, da Isabella Rossellini a Michelle Pfeiffer, Cindy Crawford, Julia Roberts…
«Lavorare sull’immagine dà una grande responsabilità nei confronti dei giovani, delle ragazze che sono circondate da modelli non raggiungibili, fuori dalla realtà. Nella serie televisiva Domina interpreto Livia Drusilla, la terza moglie dell’imperatore Augusto, una donna forte e sicura. Come potrei trasmettere forza e sicurezza se io per prima non fossi sincera con me stessa e con gli altri?».
Con la fuga del tempo che rapporto ha?
«Proprio il tempo ci ha permesso di fare esperienze e trovare il nostro modo di entrare in relazione con il mondo. È il passare del tempo a renderci più interessanti e per questo più belle».