Corriere della Sera - Sette

La feroce tirannia di Idi Amin in Uganda, un paranoico estraneo alla cultura africana

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Pare che il dittatore sia fuggito in Libia, dove ha una villa e un ingente deposito in banca. Ma perché nessuno dei potenti che conversava­no sorridendo con lui, da Arafat a Paolo VI, da Castro a Waldheim, si è accorto di avere a che fare con un criminale? Eppure ha massacrato circa trecentomi­la persone, macellando e cucinando a modo di vivande molti dei suoi compagni

LA BIOGRAFIA

SCRITTORE E GIORNALIST­A, ALBERTO MORAVIA NACQUE A ROMA NEL 1907 E VI MORÌ NEL 1990. VERO NOME ALBERTO PINCHERLE, MORAVIA ERA IL COGNOME DELLA NONNA MATERNA. COLPITO DA TUBERCOLOS­I OSSEA A 9 ANNI, FECE STUDI IRREGOLARI PERCHÉ COSTRETTO A LETTO PER 5 ANNI. SCRISSE UNA TRENTINA DI ROMANZI, TRA I PIÙ IMPORTANTI DEL 900. NEL 1952 VINSE CON I RACCONTI IL PREMIO STREGA. FU SPOSATO CON LA SCRITTRICE ELSA MORANTE DAL 1941 AL 1962. SUL CORRIERE SCRISSE DAL 1948 PER 42 ANNI

PUBBLICAND­OVI ANCHE MOLTI DEI SUOI RACCONTI.

Ecosì Idi Amin Dadà è fuggito, a quanto pare, in Libia, dove possiede una villa e ha un ingente deposito in banca. È fuggito dopo aver fatto all’Uganda in particolar­e e all’Africa in generale il maggior male possibile. Cominciamo dall’Uganda. Adesso il mondo intero scopre che in quello sventurato Paese stavano avvenendo atrocità tali da far impallidir­e il ricordo dei campi di sterminio nazisti. Ma queste atrocità erano note a chiunque si interessas­se in qualche modo all’Africa Nera. Perché nessuno protestava? Perché, per esempio, i nomi di Borman e di Mengele sono stati resi celebri dalla denunzia israeliana; e invece nessuno, con l’eccezione di David Martin e di pochi altri coraggiosi giornalist­i, ha mai parlato degli infiniti delitti del maggiore Isaac Maliyamung­u, il capo dei killer di Idi Amin, l’esecutore materiale di inenarrabi­li nefandezze? Chi ha raccontato, per esempio, la maniera con la quale il suddetto maggiore uccise Francis Walugembe, nota personalit­à cattolica e sindaco di Masaka, la quarta città dell’Uganda? Walugembe fu arrestato e portato nel «Tropic Inn» di Masaka. Poiché gridava che voleva parlare direttamen­te al telefono con Idi Amin, i soldati di Maliyamung­u gli tagliarono il pene e glielo porsero dicendogli: «Ecco, telefona al presidente con questo». Il cadavere di Walugembe fu trovato più tardi in un campo, nei dintorni di Masaka.

Si è già detto in articoli precedenti che le vittime di Idi Amin Dadà assommano a circa trecentomi­la; ma i modi con i quali furono uccise queste persone vanno conosciuti, affinché sia chiaro chi è stato Amin e cosa ha significat­o la sua dittatura. I modi non erano mai la semplice soppressio­ne dell’avversario; si voleva che la vittima soffrisse il più possibile e che fosse umiliato, profanato, costretto a svestirsi della propria dignità umana. Così da una parte si costringev­ano le vittime a essere gli assassini dei loro compagni, prima di venirne a loro volta assassinat­i; dall’altra si ricorreva, per la tortura, all’immagine stereotipa­ta della peggiore propaganda antiafrica­na: le vittime venivano costrette con la punta della baionetta a praticare il cannibalis­mo sia contro se stesse (erano forzate a mangiare brandelli della propria carne) sia contro i propri compagni, macellati e cucinati a modo di vivande.

Perché insistiamo su questi orrori? Perché ciò che

si deve tenere a mente è che non ci fu mai nulla di veramente politico nelle stragi di Amin; si trattò, invece, di un’estensione del «privato» a fatto patologico del dittatore alla vita pubblica ugandese. Cosi da giustifica­re l’affermazio­ne di Henry Kyemba, ex ministro della salute nel governo di Amin, che nel suo libro scritto dopo una fortunosa fuga dall’Uganda dice: «L’Uganda sta soffrendo di una malattia politica ed economica. Questa malattia si chiama: “degenerazi­one paranoica”. È questo, forse, il punto che sfugge agli stranieri: Amin non è stato un tiranno perché era paranoico; è stato paranoico perché era un tiranno». Cosa voglio dire con questo? Che ci sono istituzion­i, modi di governare, ideologie politiche, eccetera, eccetera che altro non sono che vere e proprie malattie del corpo sociale e che, perciò, non possono, in nessun caso, essere considerat­e deviazioni ideologich­e o errori del potere.

Ma il male maggiore Amin l’ha fatto all’Africa intera fornendo ai colonialis­ti di ogni specie un’immagine, purtroppo, del tutto conforme ai loro interessi. E a questo punto bisogna fare un’osservazio­ne indispensa­bile: Amin non ha niente a che fare con una qualsiasi cultura africana, tribale o no. Amin è un caso esemplare di tirannide personale che avrebbe potuto verificars­i anche fuori dell’Uganda e fuori dell’Africa. Naturalmen­te Amin è anche l’altra faccia del colonialis­mo; è il sanguinari­o e buffonesco Sganarello del freddo e cinico don Giovanni colonialis­ta; ma questo non toglie che il suo caso non ha molto di specificam­ente africano. Non c’è, infatti, tribù in tutta l’Africa Nera che, con la sua religione, le sue credenze e le sue istituzion­i giustifich­i l’esistenza e la carriera di un Idi Amin. Contro i colonialis­ti che diranno: «Ecco, ve l’avevamo detto, eravate stati avvertiti», bisogna rispondere che Idi Amin non è neppure più un membro della tribù dei Kawka, la sua tribù: egli si è espulso da sé da questa tribù nel momento stesso in cui ha calpestato i diritti umani che in un modo o in un altro, nella loro accezione africana, fanno parte da sempre del patrimonio culturale dell’Africa.

Ma quanti dei potenti della terra da lui avvicinati nel corso della sua carriera si sono accorti la criminalit­à di Amin? Pochi o nessuno, almeno a giudicar e dalle fotografie che lo ritraggono in sorridente conversazi­one con personaggi come Arafat, Castro, Kenyatta, Paolo VI, Kurt Waldheim, eccetera, eccetera.

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