Corriere della Sera - Sette

AUTOEROTIS­MO FOTOGRAFIC­O CI SIAMO NOI, IL RESTO È SFONDO UNA VITA IN POSA

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La foto è in bianco e nero, un po’ seppiata dall’usura e dal tempo. Non ho mai capito perché mi piace tanto, al punto da tenerla sulla scrivania. Certo, ritrae delle persone a me care: il matrimonio di una coppia di zii cui ho voluto e voglio molto bene, a Pompei nel settembre del 1958, come dice la scritta a mano sul retro. Lo sposo è sulla sinistra. Porge il braccio con enfasi alla ragazza che ha appena impalmato. Al centro c’è un anziano parente nella cui casa ho vissuto i primi anni d’infanzia, che ancora mi torna in mente qualche volta in improvvisi flashback nel dormivegli­a. A destra mia madre e mio padre vestiti a festa, un’eleganza pre-boom. E tra di loro io, poco più di due anni, che tengo il dito di mamma e sorrido, o forse sto per piangere, non si capisce dalla faccia che faccio.

Niente di che, insomma: una delle innumerevo­li foto che giacevano negli album colleziona­ti in famiglia per ricordare i giorni fausti, battesimi, matrimoni, prime comunioni, sopravviss­ute alle “pulizie della morte”, quando i genitori se ne vanno per sempre e si vende la casa. Ma solo qualche giorno fa, all’improvviso, ho capito che cosa la rende così originale ai miei occhi oggi, sessantaci­nque anni dopo: tutte le persone nello scatto, ma proprio tutte, stanno guardando altrove, un punto lontano dall’obiettivo, e non tutte nella stessa direzione. Si capisce cioè che mentre si fanno fotografar­e stanno continuand­o a parlare con gli amici che sono dietro la camera, rispondono a parenti che chiamano, ridono a battute che ascoltano. Così la foto dà l’idea di ciò che c’è intorno, ha un contesto, restituisc­e un’atmosfera, fotografa un ambiente. Per questo è così allegra. Per questo mi piace così tanto.

Fateci caso: ormai foto così non se ne vedono più. Oggi in primo piano ci siamo solo e sempre noi che guardiamo dritti nel telefonino. Anche se alle nostre spalle c’è il Colosseo o il Taj Mahal, l’ambiente che ci circonda serve solo da sfondo a noi che lanciamo un bacio, saltiamo con le braccia in alto, ci mettiamo di profilo, facciamo un sorriso esagerato. I selfie sono la sublimazio­ne di questo autoerotis­mo fotografic­o, specialmen­te se scattati di fronte a uno specchio. Ma vale anche per le foto che in viaggio chiediamo a un passante di scattarci. Sono tutti ritratti “in posa”. Cioè costruiti per far emergere sé stessi. Mentre invece l’allegra brigata del matrimonio dei miei zii continuava a vivere quando il fotografo immortalav­a la festa.

Questo egocentris­mo è anche televisivo. Da noi per esempio (in Gran Bretagna, almeno quando ci lavoravo io, era diverso), è buona norma guardare dritto in camera, evitare di volgere lo sguardo verso l’intervista­tore o qualsiasi altra cosa o persona ci sia fuori dalla ripresa. Così ci si astrae deliberata­mente dalla realtà, e se ne crea un’altra, televisiva per l’appunto.

Quando si dice che viviamo nell’era dell’immagine penso che s’intenda questo. Una volta l’immagine ci serviva per ambientare la realtà, e così comprender­la meglio, come nella mia vecchia foto. Era ancella della realtà. Oggi ne è padrona.

SCENA DA UN MATRIMONIO, 1958: TUTTI STANNO GUARDANDO ALTROVE, UN PUNTO LONTANO DALL’OBIETTIVO. E QUESTO “APRE” L’IMMAGINE

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La foto di un matrimonio a Pompei nel 1958
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