«RACCONTO IL TERRORE DI PERDERE LA VISTA: SO COME CI SI SENTE QUANDO C’È UN COUNTDOWN»
In Spilli, la scrittrice affronta il tema della cecità «in un mondo fatto per persone che vedono». «Ho ereditato la grave miopia di mio nonno: mi mancano nove decimi. Ma l’incontro con una ragazza cieca mi ha fatta sentire stupida»
Nel racconto di Anna Maria Ortese Un paio di occhiali la protagonista, messa di fronte al tabellone oculistico, vede le lettere ormai minuscole come spilli: proprio da questa scena l’esordiente Greta Olivo è partita — traendone anche il titolo — per immaginare la storia di Livia, adolescente appassionata di atletica che scopre di essere affetta da una grave malattia degenerativa agli occhi. Una formazione perturbata dal danno, che custodisce in sé letture più ampie, attraverso le quali l’autrice romana fa i conti coi traumi della sua famiglia, le radici della discriminazione e la voragine dell’inadeguatezza. Nel romanzo Spilli (Einaudi) il racconto di una giovane vita come tante altre viene deformato dal countdown della perdita del mondo e da una fenomenologia della privazione sensoriale basata anche su un lavoro di ricerca diretta.
Da dove arriva l’idea di raccontare la cecità?
«Nel 2015, appena finita la triennale in Lettere, ero in un momento di confusione. Mia madre è saltata fuori con un’eredità lasciata da mio nonno, offrendomi la possibilità di esaudire il desiderio di frequentare una scuola di scrittura. Alla fine dei due anni ho presentato un’idea, rimasta tale, per un romanzo costruito attorno a un personaggio ispirato proprio a mio nonno, che era cieco».
Dalla nascita?
«Durante la seconda guerra mondiale, dato che era molto miope, non fu arruolato, ma venne catturato dai tedeschi e portato in un campo di lavoro. Lì perse un occhio. Verso i cinquant’anni ha perso anche l’altro, un distacco della retina. Ha affrontato la sua cecità in modo distruttivo».
Che ricordi ha di lui?
«Era un uomo di grandi rabbie. La malattia l’ha portato a ritirarsi in sé stesso, e questo ha condizionato tutta la nostra storia famigliare. Per me era una figura mitologica, ma distante. Nato nel 1921: ero la nipote femmina, non era molto interessato a me. Forse anche per questo ero così affascinata: a scuola iniziavo i temi parlando di lui».
La malattia è legata solo a questa figura?
«Ho ereditato la sua grave miopia, l’unica in famiglia. Mi mancano nove diottrie, senza lenti a contatto non torno a casa. L’oculista tante volte mi ha propo
«IL NONNO ERA UN UOMO DI GRANDI RABBIE, LA MALATTIA LO HA PORTATO A RITIRARSI IN SÉ STESSO. A SCUOLA INIZIAVO I TEMI PARLANDO DI LUI»
sto l’operazione: ho sempre rifiutato. La mia paura più grande, irrazionale date le tecnologie di oggi, è sempre stata quella di ripetere la sorte di mio nonno».
Perdere la vista?
«Non solo: avevo il sospetto che un po’ di quell’oscurità che intravedevo in lui la potessi avere anche io. Allora ho deciso di scrivere una storia in cui qualcosa di analogo accade a una ragazza simile a me. Volevo raccontare il terrore della perdita».
Livia è affetta da retinite pigmentosa: come si è mossa per descrivere l’esperienza sensoriale di chi, a poco a poco, perde la vista?
«L’unico cieco che ho conosciuto è stato mio nonno, e non era facile parlarci. Quindi ho pensato che fosse necessario documentarmi. Ho iniziato a frequentare l’Istituto Sant’Alessio, un centro romano fondato nell’800. Era importante partire dal dato di realtà, sul quale poi innestare l’invenzione. Ho trovato una grande volontà di farsi conoscere, anche perché dei ciechi — uso questa parola perché loro la preferiscono ad altre — si parla ancora pochissimo».
Un incontro che l’ha colpita?
«Sono stata a casa di una signora, alla Garbatella, che ha proprio la retinite pigmentosa, malattia dal decorso che varia da individuo a individuo. Un elemento interessante a livello narrativo, così come il restringimento progressivo del campo visivo. Alcuni scoprono la patologia molto tardi: ho conosciuto un ragazzo, Marco, che mi ha spiegato quante cose ha fatto, anche pericolose, senza sapere di essere già a uno stadio avanzato. La vista è qualcosa di totalmente personale: non possiamo mai essere sicuri che ciò che vediamo corrisponda esattamente a ciò che vede un altro. Le persone solo a un certo punto
«LA VISTA È QUALCOSA DI TOTALMENTE PERSONALE: NON POSSIAMO ESSERE MAI SICURI CHE CIÒ CHE VEDIAMO CORRISPONDA A CIÒ CHE VEDE UN ALTRO»
capiscono, la soglia è imprevedibile». Ha scoperto in lei pregiudizi?
«Si pensa di dover aiutare di continuo, invece le persone che ho conosciuto sono assolutamente in grado di stare nello spazio. A un certo punto, fuori dal centro, sono iniziati dei lavori, c’erano ostacoli nuovi. Mi è stato chiesto di accompagnare una ragazza alla fermata dell’autobus. Mi ha raccontato che conviveva col fidanzato, aveva una vita piena di cose. Eppure nel momento in cui si è allontanata ho sentito come se l’avessi abbandonata. Scatta un senso esagerato di cura che infantilizza l’altro: mi sono sentita stupida». Che emozioni circolano in una comunità di quel tipo?
«Non ho trovato tristezza, ma neanche eroi: c’è tutta una narrazione della disabilità secondo la quale conferirebbe superpoteri. La prospettiva della perdita terrorizza: è tranquillizzante pensare che nel momento in cui perdi la vista diventi un essere con una sensibilità più sviluppata, un udito più sviluppato, un’empatia più sviluppata».
Invece?
«Non c’è niente di superumano, in mancanza di un senso ci si sofferma su altro. Il nostro è un mondo per persone vedenti, spesso me l’hanno ripetuto. Chi perde la vista cambia punti di riferimento».
Altri aspetti che sfuggono al senso comune?
«Il legame con la visione non svanisce. Quando uscivo di lì mi sentivo molto calma, ho capito che era perché non vedevano il mio corpo. A molti stavo simpatica, con alcuni è nata un’amicizia.
2,1% NELL’UNIONE EUROPA LE PERSONE DAI 15 ANNI IN SU COLPITE DA DISABILITÀ VISIVA, MENTRE A PARTIRE DAI 65 ANNI SI ARRIVA AL 5,6% E DAI 75 ANNI ALL’8,7%, DATI ISTAT
Mi dicevo: è perché non sanno come sono fatta, si concentrano solo su quello che dico. Poi ho scoperto che avevano chiesto informazioni sul mio aspetto. È normale: anche se non lo vedrai mai vuoi sapere com’è fatto l’altro. Il piano visivo non è escluso, anche se è andato perduto».
Cosa le è sembrato di capire della disabilità lavorando al personaggio di Livia?
«Io non posso davvero sapere che cosa vuol dire non vedere. Il romanzo infatti si ferma nel momento in cui lei perde la vista del tutto. Il suo non vedere però è stato funzionale al mio voler raccontare anche altro. Soprattutto parlando dell’adolescenza, io so come ci si sente quando c’è un countdown, un buio che si avvicina. So com’è fare quello che si può con ciò che si ha. Per Livia è il decidere, a un certo punto, di andare al centro per non vedenti: per me è stato il ricongiungermi alla scrittura, dopo aver pensato a lungo che fosse qualcosa di troppo grande». Livia mantiene una sua ambivalenza, non è riducibile alla figura della vittima. È testarda, scontrosa, respingente.
«Perdere la vista è solo una cosa che le succede: lei stessa non sa cosa sia la disabilità. È molto ignorante e spaventata dal mondo dei ciechi: ha pregiudizi, pensa che la sua sarà una vita orrenda, di sole mancanze. Ed è molto arrabbiata».
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Dopo la scrittura lo sguardo sulla sua storia famigliare è cambiato?
«Mio nonno ha smesso di essere un archetipo: ora vedo la persona reale. Più complessa, dolente. Ma credo di aver fatto pace soprattutto con la mia adolescenza. Mi è servito parlare dell’inadeguatezza per perdonare una certa parte di me. Da piccola avevo un sentimento di vergogna molte forte, un senso di imminente umiliazione. Sentivo che non sarei mai stata felice. Ora, dopo che mi sono permessa anche di poter essere umiliata, risultare ridicola, sono meno infelice. E penso che lo faccia anche Livia: sebbene sia pericoloso, alla fine va nel mondo». Di nuovo la perdita come orizzonte comune.
«È il punto centrale della discriminazione. Tutti siamo terrorizzati dalla perdita, solo che alcune esistenze la rendono più visibile. Per questo c’è il pregiudizio. Trattiamo le persone con disabilità come eterni bambini, eroi o esseri angelici, senza desiderio sessuale. Li guardiamo dall’esterno e li etichettiamo. Poi a un certo punto magari lo diventi tu, e lì hai il terrore che quel senso di pietà ricada su di te».
A Livia succede un po’ questo.
«Era importante che fosse piena di vita. All’inizio lei pensa che della malattia si occuperà un’altra Livia, più vecchia. A quindici anni sente di avere tutto da conquistare. Credere che chi è diverso da noi non abbia i nostri stessi desideri è un meccanismo di protezione distorto. Solo il contatto diretto muta lo sguardo, perché costringe a farsi carico delle infinite somiglianze, che siamo allenati a cancellare».
MILIONI
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«CREDERE CHE CHI È DIVERSO DA NOI NON ABBIA I NOSTRI DESIDERI È UN MECCANISMO DI PROTEZIONE DISTORTO»