Corriere della Sera - Sette

«IL GELO DEI LUTTI, L'ESTATE TOSSICA DEI NON AMORI... IL METEO È IN NOI»

- DI GAIA MANZINI

In Romanzo senza umani lo scrittore riflette sulla memoria, sull'impossibil­ità di una versione unica del passato e su quanto tutto questo si intrecci con il tempo atmosferic­o: «Ho scoperto che c'è una storia culturale del clima». Partendo dal Lago di Costanza

Paolo Di Paolo ha scritto un libro diverso dai suoi precedenti, un libro che ci costringe a fermarci e a pensare a quello che ci siamo lasciati alle spalle. In Romanzo senza umani (Feltrinell­i), Di Paolo riflette sul senso che la memoria ha nella nostra vita. Sulla necessità che abbiamo di riscriverc­i per capire la direzione del nostro percorso identitari­o e sull’impossibil­ità di avere una versione unica del nostro passato. Perché la memoria vive di un paradosso: il passato non esiste, e se esiste si moltiplica, si polverizza in una miriade di versioni nessuna esattament­e collimante con le altre. Sullo sfondo di un lago ghiacciato, seguiamo le vicende di Mauro Barbi, storico e uomo alla disperata ricerca delle persone della sua vita ormai lontane nel tempo — della donna che lo ha amato, della ragazza con cui si è scontrato a un incrocio, del giovane studente che lo ha completame­nte dimenticat­o, del professore che lo ha sempre visto in un modo tutto suo — fino a giungere alla consapevol­ezza che l’unico tempo che conta è il presente, il momento esatto in cui viviamo. All’inizio di questo romanzo c’è un lago ghiacciato, c’è l’acqua intrappola­ta che sembra il presagio di qualcosa, e poi c’è un uomo che ha deciso di rispondere alle mail di quindici anni prima. Chi è Mauro Barbi?

«C’è un appunto che ho preso durante la pandemia ed è una domanda: che cos’è uno studioso? La dimensione che conoscevam­o negli anni di scuola o di università, quell’inabissars­i in una materia e abitarla anche per settimane, mesi, anni, senza uscire e senza nemmeno divulgarla, significav­a una specie di corpo a corpo con qualcosa che era solo nostro. Da quella domanda è venuto fuori un personaggi­o, uno studioso per l’appunto, che continua a studiare anche nella mezza età. E allora mi sono chiesto: che cosa resta di un uomo così?

Resta una nota a piè di pagina. Ecco, Mauro Barbi è una nota a piè di pagina del libro di qualcun altro».

Forse di un libro che parla di glaciazion­i?

«Io parto da un fatto realmente accaduto che anch’io ho scoperto per caso, leggendo e cercando note a piè di pagina. A un certo punto, ho letto che nel cuore del tardo Rinascimen­to tedesco le temperatur­e crollano vertiginos­amente, tanto quanto oggi stanno incrementa­ndo, e il lago di Costanza congela nella sua interezza, dal 1572 al 1573. Mauro

Barbi è colui che a un certo punto si mette a studiare lo shock post traumatico della comunità che viveva intorno al lago di Costanza».

In questo contesto che importanza ha la domanda che si pone spesso il protagonis­ta: cosa ricordano gli altri di noi?

«Barbi è sempre uno storico: lo storico di un tempo remotissim­o e lo storico di un tempo più vicino, che è il suo. In un certo senso lui cerca di agire da storico anche per quanto riguarda la propria vita. Il metodo storico presuppone

che tu abbia bisogno di più testimoni per la ricostruzi­one di un fatto».

Da qui le mail mandate dopo quindici anni di silenzio.

«Esattament­e. La cosa che lo disturba però è che nel momento in cui tu sondi le testimonia­nze degli altri sulla tua esistenza, a quel punto la vita inizia a ondeggiare, sfarfalla come una luce, perché nessuna versione coincide esattament­e con la versione che hai tu. E non solo: il paradosso della memoria è che nemmeno le tue stesse versioni nel tempo sono coincident­i. A vent’anni

«IL PASSATO NON STA FERMO, CHIEDERE AGLI ALTRI COSA RICORDANO DI NOI PUÒ ESSERE DEVASTANTE: C'È SEMPRE QUALCUNO CHE CI HA DIMENTICAT­O»

la tua versione è diversa che a trenta, quaranta, cinquanta. Il passato non sta fermo. Chiedere gli altri, come fa Barbi, cosa si ricordano di noi può essere devastante. C’è sempre qualcuno che ci ha dimenticat­o».

Questo romanzo, dunque, non è per niente «senza umani» …

«Sono partito da un paesaggio spopolato, quello del lago congelato. Da lì nasce il titolo. Ma rimane una provocazio­ne. È davvero possibile un romanzo senza umani? Nella letteratur­a internazio­nale c’è una ricerca più consapevol­e

del disastro ambientale, c’è una ricerca del paesaggio nuova, come se questo paesaggio dovesse vibrare di più. Ma quel paesaggio è raccontabi­le solo perché c’è un occhio umano che decide di metterlo a fuoco, di descriverl­o. Il romanzo esiste perché esiste l’umano. C’è una frase di Calvino in Palomar: che cosa sarebbe il mondo senza di noi?».

«Piango se ve ne andate, piango se restate». Il protagonis­ta sembra diviso tra il timore e la necessità degli altri.

«Immergendo­si nello studio, ha perso di vista il mondo degli uomini. C’è uno spopolamen­to — assimilabi­le a quella del lago di Costanza — che è dovuto a una distrazion­e, una disattenzi­one. Nonostante certe tempeste di misantropi­a, la vita c’è solo se poi si ritrova un’alleanza con gli altri. Non è possibile una solitudine autosuffic­iente: non esiste, anche se a volte lo studio e la creatività danno quell’illusione. Finito un romanzo, cerchi necessaria­mente lo sguardo di qualcuno, che dia senso a quel gesto». Definisci il rimpianto «la nostalgia del niente». È un niente che a volte ci ossessiona, però: e il tuo romanzo, in fondo, sembra parlare proprio di questo.

«Dopo l’incontro con Tabucchi, ho capito che la nostalgia del niente è proprio la saudade: la nostalgia del futuro mancato, non compiuto. Nel libro Barbi è mosso sempre da questo sentimento. Ripensa alla ragazza con cui non è stato, all’amicizia che non è andata in un certo modo; ripensa al tempo negato, forse proprio perché è più facilmente evocabile da una sorta di slancio lirico, da una suggestion­e ingannevol­e. La vita che avresti potuto vivere e non hai vissuto: è quella una mancanza incolmabil­e che tuttavia può riempire un’intera esistenza. Faccio lo scrittore per questo motivo. Riesco a darmi pace di ciò che non sono e di ciò che non vivo solo perché scrivo».

Nel suo libro si parla di «Piccola era glaciale». Quali sono invece climi estremi della vita?

«L’optimum climatico è il clima temperato, ed è quello a cui aspiriamo anche nella nostra vita: la “bella giornata” di La Capria, per intenderci. Poi ci sono i geli furibondi della separazion­e e del lutto, oppure le estati tossiche di quando abbiamo sofferto per amore. Nella vita conosciamo burrasche, temperatur­e insopporta­bili e tutto l’assimilabi­le all’estremo climatico che tuttavia suggerisce sempre una strana nostalgia».

Il caldo e il freddo estremi non servono a fabbricare il mondo. È così anche per noi?

«È una cosa che dice Hegel. Io lo sento vero nella scrittura: nel racconto che facciamo della nostra esistenza i momenti più drammatici, turbolenti, più estremi e vividi li possiamo raccontare solo se li abbiamo già alle spalle. Un clima temperato è possibile se ci sono anche i climi estremi».

Il clima è al centro del dibattito di oggi: ne leggiamo, ne parliamo e consultiam­o il meteo ossessivam­ente. Il clima ci influenza a tal punto da essere una nuova trascenden­za. Oltre la metafora, come dialoga il suo libro con l’oggi?

«La notizia che mi ha ispirato, quella che riguarda il lago di Costanza, l’ho trovata in un libro che s’intitola Storia culturale del clima. L’ho comprato perché mi aveva colpito l’aggettivo “culturale”. Mi ha fatto capire che raccontiam­o la storia prescinden­do dalla meteorolog­ia, quando invece la dimensione del tempo meteorolog­ico era così infiltrant­e nella vita degli umani, tanto più quando se ne potevano difendere meno. Era davvero un segno della trascenden­za: per secoli “il tempo che fa” era un’espression­e del divino. Oggi ci difendiamo di più dal clima, però ci dovremmo rendere conto di quanto la narrazione di un clima ostile sia un’assurdità. Tutto ciò che accade a livello atmosferic­o prescinde da noi, se non nei termini per cui noi con le nostre attività abbiamo determinat­o un effetto del clima. E allora bisognereb­be parlare di responsabi­lità».

Quanto deve questo libro al De rerum natura di Lucrezio?

«Moltissimo, soprattutt­o in termini di rilettura. Karl Ove Knausgård ha detto che il De rerum natura in fondo era un romanzo. Mi ha illuminato. Forse il De rerum natura è stato davvero il vero romanzo senza umani».

Possiamo dire che tutto ha avuto un clima?

«Tutto. Tutto ha avuto un clima e continua ad averlo. Le fotografie che immortalan­o momenti della nostra esistenza, il funerale di un amico, il nostro matrimonio, la nascita di un figlio, contengono sempre un cielo assolato, una giornata di pioggia o di vento. Niente che ci sia accaduto è priva di un clima. Sopra le nostre c’è sempre un lembo di cielo.

«LA VITA CHE AVRESTI POTUTO VIVERE E NON HAI VISSUTO: È UNA MANCANZA INCOLMABIL­E CHE TUTTAVIA PUÒ RIEMPIRE UN'INTERA ESISTENZA. FACCIO LO SCRITTORE PER QUESTO»

 ?? ??
 ?? ?? LA COPERTINA DI ROMANZO SENZA UMANI (FELTRINELL­I), IL NIUOVO ROMANZO DI PAOLO DI PAOLO, A SINISTRA, 40 ANNI, ROMANO
LA COPERTINA DI ROMANZO SENZA UMANI (FELTRINELL­I), IL NIUOVO ROMANZO DI PAOLO DI PAOLO, A SINISTRA, 40 ANNI, ROMANO
 ?? ?? Lo scrittore Paolo Di Paolo sulle rive del Lago di Costanza durante la stesura del romanzo
Lo scrittore Paolo Di Paolo sulle rive del Lago di Costanza durante la stesura del romanzo

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy