UNA FIGLIA PRIGIONIERA DI UN AMORE TOSSICO? NON GIUDICARE, “RIPRENDITELA”
Gentile Massimo, mia figlia trentenne è nelle mani di un compagno che le usa violenza. Parlo di violenza accertata per un episodio in mia presenza e poi confermata da un primario psichiatra della mia città. Mia figlia abita con quest’uomo in un’altra regione e non comunica più con me dal novembre scorso, quando ha deciso di interrompere qualsiasi contatto. Potrà capire come mi sento: sono una madre allo stremo! Invece di sostenermi, le altre persone spariscono, se ne fregano, mentre io sono stanca di sentirmi dire (anche dalle autorità competenti) che deve essere lei a contattarmi in quanto maggiorenne. Relazioni non sane come la sua con quell’uomo sono a un livello così elevato che ci vorrebbe una legge apposita, perché chi è vittima spesso inconsapevole possa venire “salvato” anche contro la sua volontà. Mia figlia soffre di autosacrificio, cioè di modificazione della sua essenza: si è convinta di dover salvare il compagno e gli ubbidisce sacrificando sé stessa. Non è più la mia cara figlia che io continuo a chiamare “la mia meraviglia”.
Nessuno mi ascolta e i pochi che lo fanno mi dicono che non possono obbligare una donna di trent’anni a fare quel che non vuol fare. Devo dunque rassegnarmi all’idea di aver perso una figlia o, peggio, all’idea che mia figlia si sia persa per sempre? La prego, mi dia retta almeno Lei.
Eliana
SONO QUI, SIGNORA, per il niente che posso. Do naturalmente per scontato che la sua versione sia la più vicina al vero. Non si offenda, ma a rendere complicata la risoluzione di queste controversie è anzitutto la difformità dei punti di vista. Immagino che sua figlia mi avrebbe scritto una lettera molto diversa, lamentandosi di una madre ossessiva e pregiudizialmente contraria alla sua relazione con un uomo complicato, certo, ma innamorato di lei. Chi è vittima di un amore tossico ne nega la tossicità. Anzi, proprio in questa negazione si manifesta la natura tossica del rapporto. L’amore è uno specchio in cui ci riflettiamo. Se siamo caos attiriamo caos. Se siamo fragili attiriamo fragilità. E se siamo vittime attiriamo carnefici. Perciò non bisogna mai affidare all’amore di un’altra persona il compito di risolvere i nostri problemi. Non funziona così. Anzi, funziona esattamente al contrario: è solo quando hai risolto i tuoi problemi che sei nelle condizioni di vivere appieno una storia equilibrata.
Se le cose tra loro stanno come lei dice, sua figlia e quell’uomo hanno instaurato un legame malato ma al momento ancora molto resistente, forse perché poggiato sulle debolezze reciproche: lui la manipola, facendola sentire in colpa, e lei si sacrifica per lui in cambio delle sue attenzioni, compiacendosi del proprio ruolo di crocerossina. E’ uno schema piuttosto frequente, che a un certo punto si spezza con la presa di consapevolezza da parte della vittima e l’interruzione del rapporto, dopo lunghe fasi di tira-e-molla durante le quali
«SONO UNA MADRE ALLO STREMO E NESSUNO MI ASCOLTA. DEVO RASSEGNARMI ALL’IDEA DI AVERLA PERSA?»
il manipolatore cerca di riconquistare il controllo della situazione ricorrendo a ogni tipo di mossa: dal ricatto morale alla violenza psicologica e talvolta, purtroppo, a quella fisica. Che può fare allora una madre, oltre che la spettatrice ansiosa e impotente? Può cercare di ristabilire un contatto con la figlia perduta, accettando la sua scelta sbagliata senza rinfacciargliela, così da indurla ad abbassare le difese e a lasciarla di nuovo entrare nella sua vita. A quel punto non le resterà che seguire l’evolversi della situazione, ma sempre con un atteggiamento di accoglienza e comprensione che escluda il giudizio, perché altrimenti la figlia tornerà a irrigidirsi e a isolarsi nel rapporto tossico. Ci sarà un giorno in cui a sua figlia cadranno le bende dagli occhi. Un giorno in cui si scoprirà prigioniera, si sentirà smarrita e alzerà lo sguardo in cerca d’appoggio. Quel giorno lei dovrà essere lì. Ma per esserci allora, deve crearne le condizioni adesso, riavvicinandosi in punta di piedi. Tenendosi tutto dentro: paura, apprensione, disgusto e disprezzo. Non sto dicendo che sia un’impresa facile: infatti l’unica persona al mondo che può riuscire a compierla è una madre.
«CI SARÀ UN GIORNO IN CUI ALLA RAGAZZA CADRANNO LE BENDE DAGLI OCCHI, TU DOVRAI ESSERE LÌ»