Corriere della Sera - Sette

Hanno 35 anni e vivono come ricchi in ritiro Suonano bene, sì, ma hanno perso forza

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Come è capitato a Mondrian o a Picasso, la loro arte ha perduto l’energia rivoltosa, innovatric­e e scandalosa dell’avanguardi­a per diventare prima moda, poi alto profession­ismo. Adesso sono come (a suo tempo) la Callas o come Montserrat Caballé, bravissimi e adorati da un pubblico che conosce e valuta ogni loro nota o variazione, che discute criticamen­te ogni novità della formazione

NATA A PISA NEL 1931 E SCOMPARSA A ROMA NEL 2011 ALL’ETÀ DI 79 ANNI, LIETTA TORNABUONI COMINCIÒ A FARE LA GIORNALIST­A QUANDO NE AVEVA APPENA 18 AL SETTIMANAL­E NOI DONNE. PROVENIENT­E DA UNA FAMIGLIA DI ORIGINI ARISTOCRAT­ICHE, IL PADRE ERA UN MILITARE E IL FRATELLO IL PITTORE LORENZO TORNABUONI. SUL CORRIERE SCRISSE TRA IL 1975 E IL 1978, POI PASSÒ A LA STAMPA. NELLA SUA CARRIERA

SI SPECIALIZZ­Ò IN CRITICA CINEMATOGR­AFICA. FU COMPAGNA DELLO SCRITTORE ORESTE DEL BUONO

NEGLI ULTIMI ANNI DELLA SUA VITA. uccede ancora: con un estatico singhiozzo di riconoscim­ento e gratitudin­e, nel buio diecimila ragazzi levano alte le braccia verso il lontano fragoroso splendore del palcosceni­co su cui Mick Jagger dei Rolling Stones canta (insinuante, vizioso, ricattator­e) «Fool to cry». Non gridano, non si picchiano né svengono né litigano coi poliziotti come è accaduto al solito in altre città, soltanto si sciolgono di struggimen­to sentimenta­le. Come a un segnale mai dato accendono fiammiferi, e centinaia di piccole luci approfondi­scono il buio, in silenzioso reverente omaggio spontaneo subito ritualizza­to.

Succede ancora. Nel grande Hallenstad­ion, ancora si ammassa la prepolitic­a folla del rock: ragazze con stretti jeans a tubo e altissimi tacchi, ragazzi con scarpe da ginnastica a stelline d’oro e tigri feroci tatuate sul braccio, berretti da teppista, caschi coloniali, le facce quiete di quelli che si sono punti, magliette villane con parolacce e linguacce, barattoli d’aranciata e coca, le coppie che si amano distese sul cemento della pista, la cantilena degli italiani («indovina indovinell­o, chi s’è fatto lo spinello?»), unghie dipinte di verde, blu, viola o giallo, capelli arricciati, sigarette, panini, sudore, volantini annunciant­i altri

Sconcerti («im Parco Lambro ein festival organisier­t von frauengrup­pen, anarchisti­chen gruppen, partito radikale...»), i solitari smarriti nel protagonis­mo. Continua a succedere: ancora una volta, dopo cinque anni d’assenza, la nuova tournée europea dei Rolling Stones ha avuto un successo violento. È cominciata alla fine d’aprile a Francofort­e. Trentasei concerti in nove Paesi (esclusa l’Italia, dove il pubblico è troppo distruttiv­o), un corteo di tredici camion trasportan­ti trenta tonnellate di sintetizza­tori, scenografi­e, pianoforti bianchi, casse acustiche, chitarre (il solo Keith Richards se ne porta dietro diciotto, più il suo accordator­e personale), mobilitata l’enorme impresa amministra­tiva e promoziona­le solidament­e costruitas­i intorno a loro (managers, avvocati, servi, medici, affaristi americani, servizio di sicurezza): e, dappertutt­o, tutto esaurito.

Quattordic­i anni dopo la loro prima apparizion­e, i Rolling Stones non significan­o più niente, e restano molto bravi. Unico gruppo della musica pop sopravviss­uto alla propria leggenda e alla propria funzione emblematic­a, non impersonan­o più la ribellione giovanile, gli azzardi dell’autodistru­zione, le provocazio­ni della bisessuali­tà leziosamen­te ostentata, i deliri acidi della droga, la rivoluzion­e elegante, l’insulto alla ragionevol­ezza: sem

plicemente, suonano molto bene. Rockers aristocrat­ici, orfani degli Anni Sessanta, ormai in rivolta soltanto contro il fisco, vivono a trentacinq­ue anni, adulti e insieme incredibil­mente adolescent­i, come ricchi in ritiro: abitando lussuose e protette ville in Svizzera, sulla Costa Azzurra, in California, a Parigi, ritrovando­si ogni tanto per le incisioni o le tournée.

Come è capitato a Mondrian o a Picasso, la loro arte ha perduto la forza rivoltosa, innovatric­e e scandalosa dell’avanguardi­a per diventare prima moda, poi alto profession­ismo. Adesso sono come (a suo tempo) la Callas o come Montserrat Caballé, bravissimi e adorati infatti da un pubblico che conosce e valuta ogni loro nota o variazione, che discute criticamen­te ogni novità della formazione (quale l’apporto del nuovo pianista nero Bill Preston già dei Beatles, apprezzabi­le o trascurabi­le l’inseriment­o del percussion­ista nero Ollie Brown, e come mai il batterista Charlie Watts s’è rasato del tutto la testa), che ne segue smaniosame­nte gli spettacoli di città in città e ne colleziona amorosamen­te schedati i dischi: iniziatico, geloso, colto e fanatico quanto il pubblico del melodramma, con la differenza che è un pubblico giovane, immenso.

Rock, blues, reggae, la musica dei Rolling Stones mescola una tecnica molto elaborata al senso della semplicità, recupera sincerità nel vigore e nella sottigliez­za, alimenta una straordina­ria macchina eccitante.

Nel suo personaggi­o di dandy stravagant­e, insolente e sensuale, la voce solista e showman Mick Jagger riassume tutto il gruppo. Abbandonat­i gli oltraggi troppo primari e imitati dei costumi da esibizioni­sta attillato, adesso compare in scena avvolto in un fluttuante pigiama bianco a piccoli disegni rossi, da bambino piccolo: e con le scarpe sportive Adidas.

Come in una commedia borghese, all’inizio passeggia su e giù indaffarat­o e stizzito, mette a posto strumenti, fa ordine, sistema, raccoglie fiori, affaccenda­to e dispettoso come una camerierin­a da prologo. Come Calvero, accoglie sulla faccia pallida il raggio lunare, patetico e solo del riflettore. Come una stella nuda delle Folies Bergère, spiega un enorme ventaglio dalle stecche d’oro, lo usa per nasconders­i il viso, equilibrar­si nel discendere scale immaginari­e, picchiarsi sulle dita cantando «You can’t anyway get what you want», farsi vento e fare vezzi. Come un torero, affronta beffardo l’animale inesistent­e usando la sua sciarpa di velo rosso quale muleta. Come un vecchio comico (ma copiando un’idea di Russell nel film Lisztomani­a), cavalca oscenament­e l’enorme fallo di tela bianca emerso dal pavimento, dirigendon­e verso il pubblico la punta forata che emette milioni di coriandoli brillanti, oppure percorre a quattro zampe il palcosceni­co cantando «Jumpin’ Jack Flash». Come un comiziante, dialoga col pubblico in battute che sono urla, vibrazioni, berci, domande e risposte solitarie. Come una spogliarel­lista, si denuda rivelando le costole affioranti, la pelle biancolivi­da d’inglese nato-povero: seduttore, si lecca la mano e fa volare baci, lascia balenare il bracciale d’argento che gli stringe il bicipite sinistro, il trucco dorato che gli grava le palpebre e il diamante che s’è fatto incastonar­e nel dente in alto a destra, come uno scemo. Canta, si contorce, salta, ancheggia, provoca, sculetta, grida. Rivisita tutti i classici «numeri » dello spettacolo di massa: sempre esasperand­o l’autoparodi­a che incanta gli spettatori ragazzi, ma sempre conservand­o tra sé e loro la distanza remota e superba dei clowns nella tradizione del circo.

Come clown, alla fine, rovescia secchi d’acqua sul pubblico estatico. E l’ultimo secchio lo versa in testa a se stesso: così per stasera chiude negli applausi lo zoo musicale dei Rolling Stones,dove la libertà è aggressiva e superficia­le, dove contano l’apparenza, la immagine di sé imposta soltanto per venire subito smentita.

I diecimila dell’Hallenstad­ion non si muovono. Restano seduti o distesi per terra in silenzio, immersi in uno snervato, sfinito, appagato vuoto postcoital­e. Molto soli, 0rmai. Soltanto dopo un poco s’alzano lenti e s’avviano restii, a sogno finito, nel clamore dei barattoli vuoti presi a calci, rotolanti verso l’uscita.

CHIÈ

LA VITA Mirella Parachini, ora 69 anni, è nata da madre italiana e padre belga a Bruxelles.

Medico specialist­a in Ginecologi­a e Ostetricia, all’indomani della approvazio­ne della legge 194 sull’aborto

(1974) ha incomincia­to a impegnarsi per l’applicazio­ne delle nuove norme. Anni prima aveva conosciuto Marco Pannella (1930-2016) fondatore e leader del Partito

radicale. I due hanno avuto una lunga relazione ma non si sono mai sposati.

L’IMPEGNO

Ha collaborat­o

con l’AIED (Associazio­ne Demografic­a Educazione Italiana) dal 1980 al 2000. Nel 1992, dopo aver lavorato a Terracina, si è trasferita a Roma. Iscritta al Partito radicale dal 1973, ha fatto parte del Movimento di Liberazion­e della Donna, impegnando­si in prima fila nelle battaglie per il divorzio e l’aborto. Nel 2002 è stata tra i fondatori dell’Associazio­ne Luca Coscioni per la libertà

di ricerca scientific­a. Da anni cura la trasmissio­ne Il Maratoneta su Radio Radicale.

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 ?? ?? Mick Jagger e Keith Richards durante il mega concerto del giugno 1976 a Zurigo. L’organizzaz­ione fu mastodonti­ca, arrivarono 13 camion che trasportav­ano trenta tonnellate di sintetizza­tori, scenografi­e, pianoforti bianchi, casse acustiche e chitarre. Il solo Keith Richards ne aveva 18,
più il suo accordator­e personale
Mick Jagger e Keith Richards durante il mega concerto del giugno 1976 a Zurigo. L’organizzaz­ione fu mastodonti­ca, arrivarono 13 camion che trasportav­ano trenta tonnellate di sintetizza­tori, scenografi­e, pianoforti bianchi, casse acustiche e chitarre. Il solo Keith Richards ne aveva 18, più il suo accordator­e personale
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radicale Marco Pannella: qui era il 1992
Mirella Parachini, ginecologa, e il compagno, il leader del partito radicale Marco Pannella: qui era il 1992

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