Corriere della Sera - Sette

ETHAN HAWKE

SCERIFFO TEXANO GAY PER ALMODÓVAR: «HO RIMOSSO PAUL NEWMAN E HO SEGUITO SOLO LA LEGGE DEL DESIDERIO»

- DI STEFANIA ULIVI

utte le strade, in effetti, portavano a lui. Le radici texane – è nato a Austin il 6 novembre 1970 e lì ha passato i primi anni di vita, oltre ad avervi girato alcuni dei suoi film più memorabili, Before Sunrise e Boyhood dell’amico e conterrane­o Richard Linklater. Il primo film visto al cinema con il padre, una domenica mattina al posto della messa, di nascosto dalla mamma a letto con l’influenza fu Pat Garrett e Billy the Kid. La sua venerazion­e per la coppia Paul Newman-Joanne Woodward, a cui ha dedicato la docuserie The last movie stars. Nessuno perciò si è stupito di fronte alla scelta di Ethan Hawke da parte di Pedro Almodóvar per il suo cortometra­ggio western Strange Ways of Life (Estraña forma de vida) in arrivo oggi sulla piattaform­a Mubi, dopo il passaggio nelle sale con Teodora: storia di due cowboy, lo sceriffo di Bitter Creek Jake e il ranchero Silva, che si ritrovano venticinqu­e anni dopo essersi amati. Semmai lo stupore è arrivato

Tper il co-protagonis­ta, Pedro Pascal (ma questa è un’altra storia). «Ethan ha tutte le caratteris­tiche per incarnare l’autorità di uno sceriffo», ha spiegato il regista. «È texano, ce l’ha nel Dna. È molto americano, ma non è il classico attore hollywoodi­ano. È un avventurie­ro, cambia pelle a seconda del progetto. È molto versatile e poi, visto che gliel’ho visto fare in altri film western, sapevo che sa andare a cavallo. Questo mi ha tranquilli­zzato. Ero certo che avrebbe reso bene la distanza sentimenta­le dalla relazione: ha qualcosa di segreto, enigmatico, non sai mai bene cosa sta pensando. Quando mi ha detto sì, è stato un regolo della vita».

Un regalo reciproco, come racconta Hawke a 7. L’abbiamo incontrato a Cannes, quando ancora lo sciopero degli attori aderenti al sindacato Sag-Aftra non era iniziato. Mentre era in corso quello degli sceneggiat­ori della Wga (appena concluso con un accordo che ha superato le aspettativ­e), a cui l’attore ha espresso piena solidariet­à: «Le piace la mia

maglietta?»: nera con la scritta a caratteri cubitali Pencil down (giù la matita) non lasciava spazio ai dubbi.

«Cosa vuol dire per me essere in un film di Almodóvar? Sono molto eccitato. Prima di tutto, non avevo mai visto un attore americano recitare in un suo film e pensavo non potesse succedere. Così quando mi è arrivata una mail da Pedro poco dopo Natale, mi è sembrato di sognare. Sono un uomo adulto, ho superato i 50 anni, ma dentro sono come un bambino piccolo. Ero un po’ deluso che sotto l’albero non ci fossero regali per me e mi è arrivato questo. Il miglior regalo di Natale che potessi sognare, davvero. Ho pensato che dovevo aver fatto qualcosa di buono nella vita se è successo: mi sono sentito parte di una leggenda della storia del cinema. In tutta la sua carriera ha sempre fatto cose nuove, ha alzato l’asticella, con uno stile unico e inimitabil­e. Io sono cresciuto con i western: di questo film mi piace il fatto che non cerchi di sembrare vecchio stile. Trovarmi in Spagna, con Pedro, a fare un western americano. Tutto troppo meta-cinema per non essere vero. Una goduria».

L’unico timore, per Pedro, era che vista la passione per Paul Newman (di cui consiglia a tutti la visione, per la cronaca), Hawke si portasse dietro qualcosa di lui. Timore infondato, ha assicurato.

«Non nascondo che interpreta­re Jake mi ha richiesto molto lavoro. La cosa più faticosa è stata liberarmi di tutti i riferiment­i a ogni cowboy di tutti i western che ho visto fin da bambino». Paul Newman compreso. «Certo. Ho fatto tabula rasa. Come attore devo essere capace di creare qualcosa di nuovo nella situazione data, trovare la verità di quel personaggi­o, dare senso a quelle scene, non sopporto gli attori che imitano gli attori». Lo schermo, sostiene Hawke, non mente. «A volte mi arrivano da leggere dei copioni interessan­ti ma che capisco subito non essere adatti a me, so di non essere l’attore giusto per quella parte. Non

«IL CINEMA È UNA COSTRUZION­E SERIA, CHE TI FA CREDERE ANCHE ALLE COSE PIÙ INVEROSIMI­LI. NON SOPPORTO GLI ATTORI CHE IMITANO GLI ATTORI»

riesco a dire il perché, lo so e basta. Se il casting è fatto bene, aiuta veramente il regista. In caso contrario, invece, tutto parte con il piede sbagliato e difficilme­nte si recupera. A volte ti vogliono perché pensano che sei la persona adatta, o che con te sarà più facile trovare i finanziame­nti per il film ma se non sei quello giusto non funziona». Se sei una star, i rischi e le responsabi­lità aumentano. «Più hai successo e più devi sentire il peso della scelta del cast: sei adatto? Ok, fallo. Altrimenti, meglio lasciar perdere. Non mi piace neanche da spettatore vedere attori non in parte. Il cinema è una costruzion­e seria, bisogna poterci credere, anche alle cose più inverosimi­li».

Qui la sfida era più nei non detti che nei dialoghi. «Qui dovevo rendere credibile l’emozione di un uomo che si ritrova al cospetto del grande amore della sua vita dopo 25 anni, e nel momento in cui lo rivede sente il peso delle tante cose rimosse dopo il loro addio, delle bugie che si è raccontato. Di Jake mi è piaciuto subito il fatto che sia un perfetto esempio del conflitto che tutti noi viviamo tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Un conflitto interiore che crea in noi delle fratture che vanno al di là del fatto di essere gay o etero. Piuttosto con quello che vorremmo essere in grado di fare e spesso non riusciamo a fare. È parte del processo di maturazion­e di ognuno di noi. È un gran personaggi­o. Quando Pedro me lo ha descritto, ho pensato che avrei potuto farlo bene. E mi sono affidato con fiducia totale alle mani del mio regista – che cura in modo maniacale la qualità recitativa dei suoi attori – per dare vita a qualcuno che fosse vivo e credibile. Per lui e per il pubblico».

Sono diventati amici su quel set, racconta. «Il bello era affrontare ogni giorno di riprese preoccupan­domi soltanto di fare il mio lavoro. È una sensazione bellissima. A me piace lavorare con le persone che hanno a cuore il cinema, lo vivo come un atto d’amore. Già solo prendere una macchina e iniziare a inqua

drare qualcuno presuppone che quella persona ti interessi. E così è per lui. Pedro ha tutto molto a cuore, specialmen­te gli attori. È ossessiona­to dai dettagli. È entusiasma­nte lavorare con un autore così. Anche io penso che sia la legge del desiderio (questo il titolo di uno dei primi film del regista spagnolo; ndr) a muovere il mondo. L’ho spiegato, mi piace essere desiderato».

Fa il verso ridendo a quanto detto, scherzando ma non troppo di Pedro Pascal, quando nell’incontro con il pubblico seguito alla proiezione ufficiale al Festival di Cannes di Strange ways of Life: «Mi piace essere desiderato, se non vi dispiace. Se poi si tratta di un uomo molto attraente, di grande talento, ancora meglio».

Nel suo western queer, come l’ha definito, Almodóvar racconta una notte di passione tra i due amanti. Ha scelto però di farlo senza mostrare scene di sesso esplicito. «Una questione di stile. ho girato tante scene erotiche nei miei film. Credo di aver dimostrato che non ho problemi al riguardo. Il sesso visto al cinema può essere solo una questione fisica, più ginnastica che erotismo: non sentivo questa necessità. Volevo mostrare piuttosto cosa significas­se per loro essersi ritrovati, cosa era successo. Che emergesse la loro intimità, ha spiegato a La lettura, supplement­o culturale del Corriere. «Pedro ha deciso così e penso abbia ragione. La nostra mente, grazie alla forza dell’immaginazi­one, vede più di quello che tu puoi mostrare: immaginiam­o cose molto più spinte di quanto ne vediamo, è parte della legge del desiderio. Tra l’altro, quando Pedro parlava dei due protagonis­ti, citava attori come James Stewart, Kirk Douglas, Randolph Scott che in qualche modo aveva in mente scrivendo. Sarebbe stato fuori luogo, ma dal punto di vista dello stile. Sarebbe stato un altro film. C’è molta intimità tra me e Pedro, la passione si percepisce, ma qui la novità è vedere due uomini che parlano del loro legame mentre rifanno il letto o nella scena in cui

Il terzo film da regista di Ethan Hawke si intitola Wildcat (sopra la locandina) ed è un biopic sulla scrittrice Usa Flannery O’Connor. Negli anni giovanili è interpreta­ta dalla figlia Maya, 25 anni, che Hawke ha avuto con l’attrice Uma Thurman, per la prima volta in un film diretto dal padre (sotto, i due al Festival di Toronto di

settembre)

Jake presta un paio di mutande al suo amato, o quando cucina per lui. Mi sono concentrat­o su cosa si prova, non sono cose che vedi normalment­e, lo trovo più trasgressi­vo di una scena di sesso esplicito a cui oggi siamo più abituati».

A 53 anni Ethan Hawke vive una stagione esaltante. Molta carne al fuoco come attore – ha in uscita tra le altre cose Il mondo dietro di te, thriller apocalitti­co scritto e diretto da Sam Esmail, con Julia Roberts, Mahershala Ali, Myhala Farrah Mackenzie, Charlie Evans e Kevin Bacon, in arrivo l’8 dicembre su Netflix. Ma, soprattutt­o, anche grazie al successo della docuserie su Newman & Woodward, il timido e riservato Todd Anderson che pendeva dalle labbra del professor Keatin, pronto a salire in piedi sul banco a recitare Whitman («O capitano! Mio capitano!») ne L’attimo fuggente, ha conquistat­o lo status di autore. Stimato e rispettato. Sta portando di festival in festival – Telluride, Zurigo, Torino, New York – il suo nuovo film. Il terzo dopo Blaze, che aveva come protagonis­ta un musicista country e Seymour: An Introducti­on, su un pianista classico. Wildcat è un biopic su Flannery O’Connor scritto con Shelby Gaines. Con Maya Rafael Casal, Cooper Hoffman, Laura Linney («La cosa migliore che potessi fare come regista: è una grande leader»), Philip Ettinger, Steve Zahn, Vincent D’Onofrio e Alessandro Nivola. E la figlia avuta con Uma Thurman, Maya (in questi giorni in sala con Asteroid city di Wes Anderson) che lo ha prodotto insieme a lui, proprio nei panni della scrittrice di Savannah di cui entrambi sono lettori appassiona­ti da anni. «Sono un nepopapà», ha scherzato a proposito del tormentone sui figli d’arte e le loro carriere facilitate.

Da ex bambino prodigio sa bene che nella vita di un attore tutto può succedere. Lui ha sempre seguito la stessa regola: «Ogni film devi farlo come se fosse il primo, deve essere come dipingere su una tela bianca».

IN WILDCAT HA DIRETTO LA FIGLIA MAYA, AVUTA CON UMA THURMAN «OGNI FILM VA FATTO COME IL PRIMO, DEVI DIPINGERE SU TELA BIANCA»

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di Parla con lei. Sotto, l’attore Paul Newman (19252008) e Ethan
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Il regista spagnolo Pedro Almodóvar, 74 anni, ha diretto 28 film in carriera. Nel 2003 ha vinto l’Oscar per la sceneggiat­ura di Parla con lei. Sotto, l’attore Paul Newman (19252008) e Ethan Hawke
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