«STING NON MI FARÀ MAI CANTARE CON LUI. FELICE DI MIO FIGLIO POLIZIOTTO VA CONTROCORRENTE»
Attrice, produttrice e regista, in quest’ultima veste è alla Festa di Roma con un documentario su Napoli. «Mai visto gente così disponibile: mi hanno ammesso anche alle veglie funebri»
embra una turista come tante a spasso per Napoli, con la gonna a fiori e i capelli biondissimi che spuntano dal cappellino. E invece Trudie Styler, attrice e regista inglese, oltre che produttrice cinematografica, non è del tutto una outsider. Parla benissimo l’italiano, complici trent’anni di vacanze toscane nella tenuta acquistata con il marito Sting. Dal 2019 ha esplorato la città partenopea bussando alle porte di chi ci vive, intervistando artisti e scrittori, parlando con chi ha creato sacche di resistenza umana e sociale nei quartieri popolari segnati dalla malavita. Il risultato è il documentario Posso entrare? An Ode to Naples, di cui Styler firma la regia, che sarà presentato lunedì prossimo alla Festa del Cinema di Roma. «Quando la Rai mi ha chiesto di girarlo non ero stata a Napoli se non di passaggio, ma ho accettato perché mi interessava» spiega lei in collegamento da Los Angeles. (Il film è prodotto da Big Sur e Mad Entertainment con Rai Cinema e Luce Cinecittà). «Con il mio sguardo vergine, dovevo trovare la mia strada nella città per raccontarla ad altri». Lo ha fatto cercandone luci e ombre,
Slontano dalla cartolina solare tanto quanto dal rovescio più nero che il mondo ha visto nel film e poi nella a serie tv Gomorra. Ha dato voce all’autore del libro Roberto Saviano e al parroco del quartiere Sanità, don Antonio Loffredo; all’artista Jorit e alle donne dell’associazione Forti Guerriere contro la violenza. Tra le musiche mirate c’è Neapolis, canzone originale di Clementino. E chissà se ha filmato anche il marito Sting che, ad aprile, nel carcere di Secondigliano, si è esibito con gli strumenti costruiti dai detenuti con il legno dei barconi dei migranti. Del resto lui, Gordon Matthew Thomas Sumner, non vuole fare ombra alla moglie, pur accompagnandola sul red carpet di Roma.
Ci racconta il suo primo impatto con Napoli?
«Ci sono andata con Dante Spinotti, direttore della fotografia che conosco da anni, per capire cosa avrei potuto dire da straniera di una città che ha già una reputazione forte. Il documentario è il racconto della mia scoperta, dell’innamoramento. I napoletani mi hanno toccato il cuore. Tornando più volte, ho rivisto le persone e pure condiviso momenti durissimi. Immacolatina e Gennaro, i castagnari, che hanno perso un
figlio, mi hanno accolta perfino durante la veglia». Per questo ha scelto Posso entrare? come titolo?
«L’ho chiesto spesso, è stata la mia chiave per introdurmi nella vita degli abitanti che ho scelto di raccontare. Nessuno ha mai detto di no. È così facile parlare con la gente, anche nei “bassi”, e ascoltare le loro storie. Ho aggiunto al titolo Ode to Naples in omaggio a Percy Bysshe Shelley che, durante i moti del 1820, dedicò una poesia alle speranze della città». Ha intervistato anche personaggi come lo scrittore Roberto Saviano, l’artista Jorit o l’attore Francesco Di Leva, che ha fondato il teatro Nest a San Giovanni a Teduccio. Un modo per raccontare la reazione alla malavita a chi teme di visitare la città?
«Volevo punti di vista e storie interessanti. Saviano è celebre negli Usa ma non gli ho chiesto di Gomorra, piuttosto della sua vita sotto scorta da quando è un target della camorra. Io invece non mi sono mai sentita in pericolo, Napoli ti avvolge con la generosità della gente. E non parliamo dei sapori: il cibo migliore che abbia mai assaggiato, nei posti più semplici». Ha una casa in Toscana da trent’anni. Che cosa le resta dell’Italia che ha conosciuto in vari momenti della vita?
«Ho partorito mia figlia, Eliot Paulina, a Pisa, 33 anni fa. E dopo aver trascorso oltre due mesi in Toscana abbiamo preso la Tenuta Il Palagio nel Chianti, dove produciamo anche vino biologico (con l’etichetta When We Dance; ndr), torno ora dalla vendemmia. La maternità ha creato un legame forte con il luogo ma in Italia ero anche venuta a girare tre film da attrice negli Anni 80: il primo è stato La sposa americana di Giovanni Soldati con Stefania Sandrelli e Harvey Keitel». Recitare era il suo sogno fin da ragazzina?
«Sì, ho avuto un’educazione classica ma ero una ribelle, volevo viaggiare e diventare un’artista, cosa che i miei non appoggiavano. A 18 anni ho fatto l’autostop fino a Stratford upon Avon, la cittadina di Shakespeare, e ho bussato alla porta di sconosciuti, trovando una donna meravigliosa che mi ha ospitata.
Qui sopra, la locandina del documentario con la regia di Trudie Styler Posso entrare? An Ode to Naples che lunedì sarà alla Festa
di Roma. Il film è prodotto da Big Sur e Mad Entertainment con Rai Cinema e Luce Cinecittà. Sotto, Trudie e Sting all’aeroporto
londinese di Heathrow con la primogenita Brigitte a neppure un anno.
Oggi fa l’attrice
Ho trovato lavoro e iniziato ad assistere alle prove del Royal Shakespeare Theatre, prima di ottenere una borsa di studio».
Erano gli Anni 70. I vostri quattro figli non avranno avuto bisogno di simili strappi.
«Li abbiamo sempre incoraggiati a seguire i loro desideri. Eliot (33 anni; ndr) è musicista e attrice. Mickey (39) recita, Jake (38) gira documentari e Giacomo (28) sta per diventare poliziotto».
Poliziotto? Mosca bianca, o pecora nera, in una famiglia di artisti.
«Oh no, non per me. A me piacciono gli anticonformisti».
Da compagna di un cantante popolare come
Sting si è sentita penalizzata nella carriera?
«Ho iniziato a produrre film proprio quando avevo i bambini piccoli, perché il papà era spesso in tour e non me la sentivo di continuare anch’io la vita itinerante da attrice. Così ho cercato di dare una nuova direzione alla mia carriera e ho deciso di aiutare i giovani talenti che cercavano produttori. La mia Xingu Films, battezzata come il fiume dell’Amazzonia, ha lanciato fra gli altri Guy Ritchie (con Snatch - Lo strappo nel 2000) e Dito Montiel (Guida per riconoscere i tuoi santi, 2006). Ho appena portato The Burial di Maggie Betts con Jaimie Foxx al Toronto Film Festival».
È così che ha seguito di più i figli?
«Anche i ragazzi sono stati in giro per il mondo con noi per tanti anni, hanno studiato a Los Angeles e a New York. Ed è stata anche quella una scuola: vivere in posti diversi del mondo amplia gli orizzonti».
In 40 anni di unione, lei e Sting (sposato nel 1992; ndr) non avete mai lavorato insieme, mescolando le vostre carriere. L’indipendenza reciproca aiuta a una lunga vita insieme?
«Una cosa è certa: lui non mi vorrebbe mai sul palco a cantare! Insieme però abbiamo creato la Rainforest Foundation: ho prodotto una ventina di suoi show, anche con altri musicisti, per raccogliere fondi per gli indigeni dell’Amazzonia».
«A 18 ANNI ERO UNA RIBELLE: ANDAI IN AUTOSTOP NELLA CITTADINA DI SHAKESPEARE E UNA DONNA MI OSPITÒ. POCO DOPO LAVORAVO IN TEATRO»