NÉ FELLINIANA, NÉ PASOLINIANA LA NOSTRA CAPITALE BELLA E ZOZZA IN UN GIALLO CHE RICORDA GADDA
Nel romanzo Il potere di uccidere di Roncone io ritrovo, ahimé, la città di oggi, abitata da un’umanità cinica e cialtrona. Dove un onorevole asciuga una pista bianca e sospira mentre sul Ponte di Castel Sant’Angelo i barboni s’accasciano ubriachi
Raccontava, Pietro Citati, che un giorno, nell’inverno 1956-57, mentre scriveva il Pasticciaccio, Carlo Emilio Gadda gli chiese di accompagnarlo al mercato di piazza Vittorio, centro del popoloso quartiere romano nel quale si svolgeva principalmente il suo romanzo, e, in particolare, la scena in cui un poliziotto, Pompeo detto il Biondone, acciuffa un ladruncolo, tale Ascanio Luciani.
GADDA E CITATI A SPASSO
Era una mattinata fredda e limpida. Gadda scese dall’automobile e, accompagnato dal suo giovane amico, girò per una ventina di minuti con sguardo attentissimo e inquisitivo fra le bancarelle: quelle «abbacchiare», quelle di «tutta la repubblica erbaria», quelle delle arance in piramide, fino a quelle, sublimi, «ove adagiate sul tagliere prone o più raramente supine, o addormitesi di lato, a volte, le porchette dalla pelle d’oro esibivano i lor visceri
LA TRAMA ESISTE MA HA UN’IMPORTANZA RELATIVA: QUEL CHE CONTA SONO GLI ESSERI UMANI. LA GALLERIA DEGLI ULTIMI, DEI MOLTI CHE SE NE STANNO IN MEZZO, DEI FURBI CHE SI RITENGONO PRIMI. E POI C’È LEI, L’URBE...
di rosmarino e di timo». Poi risalirono in macchina. Gli scrittori lo fanno: controllano se quello che hanno inventato è vero.
Non so se Fabrizio Roncone ami Gadda con la dedizione dovuta al maggior scrittore italiano del Novecento e consideri il Pasticciaccio un capolavoro. Certo è che il romanzo che ha appena pubblicato con Marsilio, Il potere di uccidere, un giallo come il Pasticciaccio, è un ruscello che consapevolmente, oppure viaggiando a ritroso nel subconscio del suo Autore, torna a rituffarsi in quella meravigliosa fonte. Perché in entrambi i libri la trama esiste, eppure è sfuggente, ha una importanza relativa e potrebbe non concludersi mai. Poi, perché in entrambi – trama o non trama – sono importanti gli esseri umani: la galleria degli ultimi, dei molti che se ne stanno in mezzo, dei furbi che si ritengono primi… Infine, per Roma.
UN CRONISTA DI RAZZA
Com’è la Roma de Il potere di uccidere, questo romanzo divertentissimo eppure inevitabilmente pensoso, scre
anzato e lieve, e «bene informato» perché Roncone, giornalista e cronista di razza, come sanno tutti i lettori del Corriere, di Roma conosce quasi tutto? Non è più la città piccolo borghese di Gadda, annidata nei palazzoni di San Giovanni e di via Merulana, con «le panze a pera» dei pensionati dolenti, la solitudine delle signore sul volgere del tempo, le portinerie occhiute. Non è la Roma del boom economico e dei palazzinari cafoni, spietati col verde, collusi con la Democrazia Cristiana, descritti così bene per esempio nei film di Scola e di Risi. (Perché quei personaggi non esistono più. Ma nessuno può dimenticare Alberto Sordi che in Una vita difficile, di Dino Risi, a guerra finita aveva sparato sul suo giornale, a nove colonne: VIA GLI AMERICANI DA ROMA, dall’Assassino, la trattoria degli squattrinati, ordinava «due mezze abbondanti», e adesso, nel pieno del boom era diventato imprenditore di successo, e poi di rapido insuccesso. Nessuno può dimenticare il lungo corridoio de La famiglia di Ettore Scola, nella tipica casa medio borghese del quartiere Prati, con quella sfilza di porte aperte, semi accostate o serrate sulle nostalgie e sulle nevrosi. E Giovanna Ralli, la figlia burina del costruttore burino, Aldo Fabrizi, che in C’eravamo tanto amati, sempre di Scola, al pranzo del tetto offre agli onorevoli e ai monsignori fettone di pane casereccio spalmate di salsiccia dicendo, graziosa: «Gradisce una tartina?»).
VIA VENETO? CHI CI VA PIÙ?
Non è, ovviamente, la Roma di Fellini, perché la sera a via Veneto non ci si va più, e nemmeno durante il giorno, purtroppo, dal momento che una delle due prestigiose edicole è chiusa, il Cafè de Paris è sprangato, l’epica Libreria Rossetti, con solo una vetrina e però una bella poltrona di cuoio per Flaiano e Cardarelli, non c’è più – come il Magazzino Salvatore Morziello delle imbattibili cravatte e il forno Palombi degli imbattibili croissants.
Non è la Roma allibita e spettrale degli anni di piombo, dei magistrati sul cemento col buco nella suola della scarpa, dei poliziotti difesi da Pasolini, dell’atroce silenzio in cui, come dal nulla, spuntavano i comunicati delle Br. Non è la Roma “colta” di quando alla Feltrinelli o ai Paesi Nuovi si presentava l’ultimo romanzo di Parise, o Corporale di Volponi e al Tennis Parioli incontravi Giorgio Bassani a bordo campo, con cappotto e cappello. E neppure quella piaciona, elitaria, della Grande bellezza, il bel film di Paolo Sorrentino.
La Roma del romanzo di Roncone è la Roma di oggi. Quindi, ammiccante e infingarda, cinica e cialtrona, bella e zozza. E drammaticamente vera. È sparito Max, l’autista dell’onorevole Pino Pignataro. Marco Baraldi, un ex giornalista che ha chiuso con la sua professione e ha aperto una vineria molto frequentata dietro Campo de’ Fiori, sente il richiamo della foresta, ma non solo, anche quello degli affetti, perché Max è figlio dell’anziano capo della tipografia del giornale, Nazareno Balani, e, dapprima con una buona dose di scetticismo, quindi con la determinazione dell’investigatore, si mette a cercarlo. Dappertutto: dietro a Montecitorio dove per ore interminabili sostano le auto blu degli onorevoli e i rispettivi autisti; nelle palestre del body building; tra i frequentatori dei bar epici di Piazza del Popolo; nelle periferie di Pietralata e nei vialoni della Tiburtina lungo i quali si ammassano i palazzoni staliniani da dodici piani; nel club del golf sull’Aniene in cui Pignataro va a ritemprarsi dalle sue nefandezze e dalle fatiche amorose; dallo sfascia carrozze che ha “accolto” il suo Defender; e, di notte, in via della Conciliazione, sotto il colonnato della sala stampa vaticana in una situazione che è sempre questa: «Due file da dieci. Giacigli, tane improvvisate di cartone e coperte sudicie, stracci, buste piene di niente. E poi un lumino da cimitero, due bottiglie di whisky quasi vuote ,uno zaino, un sacco dell’immondizia con dentro un enorme Paperino». Tra poco, arriverà il Cardinale, che sarebbe l’elemosiniere del Papa, col thermos di brodo bollente.
LA CITTÀ PICCOLO BORGHESE DEL PASTICCIACCIO E QUELLA MEDIO BORGHESE DEI FILM DI SCOLA ORA È TUTTA AUTO BLU DI ONOREVOLI, GOLF CLUB, PALESTRE
TRA NEVE, LADRUNCOLI E ALCOL Siamo alla vigilia di Natale. Sta per nevicare. Nella vineria, l’atmosfera è frizzante: ci sono gli habitué come l’Avvocato e Picasso, i ladruncoli, le modelle griffate, le zoccole internazionali, fanno la loro apparizione anche esemplari viventi (griffati pure loro), della televisione e del bel mondo in carne e ossa. L’alcol scorre a fiumi. L’onorevole è insaziabile con le amanti e gli imbrogli: infatti lo ricattano. Una sera, in una bella casa con vista sul Portico d’Ottavia si fa un Mercante in Fiera molto ricco con la prima carta, la Giraffa, a novanta euro, acquistata con un cenno discreto a centosessanta da monsignor Salvati. Marco Paraldi, che a una cifra spropositata ha comprato Il Bersagliere (la carta notoriamente più sfigata del Mercante in Fiera) si consolerà con i suoi amici della «cena fissa una volta alla settimana», preparando una pasta e ceci da urlo, e poi rivedendo Juventus-Roma del maggio 1981, col famoso sopruso del goal valido annullato a Maurizio Turone per un inesistente fuori gioco; Max non si trova, con ogni probabilità lo hanno fatto fuori; l’onorevole asciuga una pista bianca e sospira; nevica, finalmente, e i barboni ubriachi, al Ponte di Castel Sant’Angelo, si accasciano sulla neve, sotto gli angeli che, quella sera stessa, li porteranno a Betlemme.
Ma Roma è questa? Ahimé, sì.