ABEBE BIKILA
L’ETIOPE CHE VINSE LA MARATONA SCALZO E VENNE PREMIATO CON UN MAGGIOLINO
veva corso la maratona scalzo come gli antichi greci e aveva vinto con un tempo di 2 ore 15 minuti e 16 secondi, distacco di 26 secondi sul secondo arrivato, il marocchino Rhadi ben Abdesselam. In maglia verde con il numero 11 e i muscoli scolpiti nella magrezza, quell’etiope figlio di un pastore africano, Abebe Bikila, ricalcava le gesta del pastore greco che aveva vinto la prima maratona moderna nel 1896 ad Atene, e regalava un brivido finale alle Olimpiadi del 1960 svoltesi in una Roma rinnovata e baciata dai presagi del boom economico. Una prova che andava al di là del valore fisico e puramente prestativo e che metteva in campo, a contribuire alla vittoria, tanto altro: valori rurali e primordiali, capacità di resistenza già allora in declino nel mondo occidentale, nonché l’annuncio di stili di vita abituati e training mentali di pazienza e perseveranza. Aveva colto tutto ciò bene Fiorenzo Radogna nella sua cronaca sul Corriere: «Una corsa dinoccolata e madida come certe imprese sportive che si “appiccicano” alla storia; conclusa in una serata di luci e suggestioni sotto l’arco di Costantino. Con il rumore sordo e ovattato dei suoi passi nudi sul porfido, le urla della gente e lo stupore dell’italiano medio per quei piedi che affrontavano il selciato. Con il coraggio di chi arriva da lontano, ne ha viste tante e non ha paura».
Quella decisione di correre scalzo era stata una scelta a metà obbligata perché le Adidas che aveva a disposizione gli stavano strette e temeva le vesciche, e per metà tecnica, per volere del suo allenatore finlandese/svedese Onni Niskanen. Si disse che poi, come raccontava Radogna, dalle piante dei piedi martoriati fossero state estratte pietruzze, rametti e schegge di vetro. Ai giornalisti, e a chi gli chiedeva il motivo di quella scelta, spiegò che era stata presa anche per ricordare ed onorare il proprio popolo: «Poverissimo e
Asenza mezzi, spesso nemmeno le calzature…». Ce l’aveva fatta con un regime monacale, un’arancia a nutrirlo, e una specie di anticipo di meditazione casereccia e di auto condizionamento mentale.
Abebe Bikila (in realtà Bikila Abebe ma da un equivoco iniziale per cui si era invertito il cognome con il nome, così è rimasto nella leggenda e nella storia per essere stato il primo africano a vincere una medaglia d’oro olimpica), 28 anni, era un agente di polizia e membro della scorta di Hailé Selassié: aveva avuto il privilegio di allenarsi alla corte dell’ultimo imperatore d’Etiopia che negli anni Trenta aveva cercato di modernizzare il suo Paese. Lì aveva partecipato