Le donne inglesi, i sordi, il dittatore Mobutu Storie e frasi di Filippo, professione gaffeur
Si dice a Londra che chi sostiene la Repubblica preferisca a «God Save the Queen» l’inno «Dio salvi il principe»: nessuno meglio di lui dimostra come la monarchia per diritto ereditario sia una lotteria dei cromosomi. Per i suoi molti difensori, però, è l’unico a non piegarsi al politically correct
VERONESE, FIGLIO D’ARTE (ANCHE SUO PADRE ERA GIORNALISTA), ALESSIO ALTICHIERI HA COMINCIATO
A LAVORARE AL CORRIERE NEL 1981 COME CAPOCRONISTA, CHIAMATO DALL’ALLORA DIRETTORE ALBERTO CAVALLARI. È STATO INVIATO SPECIALE SUI FRONTI CALDI DEL MONDO E INFINE CORRISPONDENTE
DA LONDRA. È MORTO NEL 2017, A 71 ANNI.
Sordi? Se siete qui da molto, credo bene che siate sordi”. E il principe Filippo, tutto soddisfatto, passò oltre il gruppo di bambini dell’Associazione britannica dei sordi, giunti a rendergli omaggio, e la banda fracassona di musica salsa che era accanto a loro.
Le cronache, il giorno dopo, l’ accusarono di avere offeso quei minorati, sfottendoli per il loro handicap. Solita ipocrisia inglese: se erano sordi, come potevano averlo sentito? E se pure qualcuno fosse stato solo sordastro, non era già stato assordato dalla musica? Filippo non aveva offeso nessuno: s’era soltanto tolto il piacere di dire la sua, visto che nessuno gli chiede mai il suo parere.
Circola una battuta, a Londra, secondo la quale i sudditi monarchici intonano «God Save the Queen», ma i repubblicani preferiscono l’inno «Dio salvi il principe Filippo». Perché non c’è persona al mondo come il duca di Edimburgo, marito di Elisabetta, che mostri come la monarchia per diritto ereditario sia una lotteria dei cromosomi dove il jackpot è la corona. Non c’è bisogno di evocare le eredi emofiliache della regina Vittoria, poverette, per dimostrare il teorema. Basta guardare Filippo, Battenberg di famiglia e Mountbatten per scelta, principe di sangue tedesco e passaporto greco, a cui nessuno fece un esame prima che sposasse Elisabetta. D’altronde, a che servirebbe?
Dicono che Filippo sia il principe delle gaffes. E avranno pure ragione: ai funerali del re
Baldovino, sei anni fa, arrivò con una bella fascia verde, a strisce rosse e d’oro. Credeva d’avere indossato l’Ordine di Leopoldo, onoreficenza belga, invece era l’Ordine del Leopardo, titolo dello Zaire concesso dal dittatore Mobutu. Bastava ammettere che s’era trattato d’un banale errore, perché nei cassetti di Buckingham Palace le fasce sono poste in ordine alfabetico. Invece, le scuse furono peggio della gaffe: lo Zaire, ex Congo, non era stato una colonia belga? Un passato infame che nessuno, tantomeno i belgi, ama rievocare.
Come fa in inglese «pezo el tacon del buso» (dal dialetto veneto: peggio la pezza del buco)? Non si traduce, semplicemente: ecco perché Filippo, quando disse che mogli e prostitute «fanno la stessa cosa», non s’accontentò di far ridere tutti, ma s’intestardì sulle sue ragioni: «Non sono certo che un’attività sia moralmente migliore se la fai per soldi. Non sono certo che una prostituta sia più retta di una moglie», se fa la stessa cosa, per denaro. Ora, a parte lo strabico sillogismo, va riconosciuto che Filippo con quella frase cementò l’ unione nazionale: insorsero sia le mogli («Queste polemiche non aiutano la promozione del ruolo della donna nella società d’oggi», disse il Women’s Institute) che le puttane: Cynthia Payne, famosa per i suoi bordelli, ammise che, «se fosse stata una donna perbene», non avrebbe amato il paragone. I suoi difensori (e ce ne sono) dicono che
Filippo ha il merito di non piegarsi alla moda del politically correct che sfibra la nostra pudibonda società. (...)