L’OCCIDENTE È DAVVERO ARRIVATO AL TRAMONTO? CINQUE DOMANDE SUL NOSTRO DESTINO
DIL FILOSOFO, STORICO E SCRITTORE TEDESCO OSWALD SPENGLER (1880-1936) AUTORE DE IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE. IL PRIMO VOLUME FU PUBBLICATO NEL 1918; L’EDIZIONE FINALE IN DUE VOLUMI
USCÌ NEL 1923 a quanto tempo noi occidentali contempliamo la fine della nostra civiltà? Sicuramente da cento anni. Cioè da quando uscì uno dei saggi che più hanno influenzato il pensiero della nostra epoca: Il tramonto dell’Occidente del filosofo tedesco Oswald Spengler. È un testo fondamentale che sembra tornare di una prepotente attualità, anche se forse per le ragioni sbagliate. Oggi il declino di quel mondo che abbraccia Europa e Stati Uniti fa parte delle nostre conversazioni quotidiane. A seconda delle preferenze di ciascuno, c’è chi accentua il dato geopolitico (le guerre in Ucraina e Medio Oriente, la crescente influenza della Cina, i sentimenti anti-occidentali diffusi nel Grande Sud globale); chi guarda alla demografia (calo della natalità e inizi di spopolamento); chi alle migrazioni che portano nei nostri paesi comunità con valori diversi, talvolta incompatibili o apertamente ostili; chi infine alla perdita di autostima degli occidentali e alla loro sindrome di autoflagellazione. Il “precursore” Spengler si troverebbe a disagio in ciascuno di questi dibattiti contemporanei. Prima farebbe fatica a capirli. Poi li troverebbe irrilevanti.
Come accade ai libri troppo famosi, Il tramonto dell’Occidente ha esteso la sua influenza fino a impressionare tanti che non lo avevano mai letto (è un’opera monumentale, oltre che per l’ambizione anche per il numero di pagine; non è scritta in stile divulgativo). La forza di quel titolo gli ha dato una vita propria. Da un secolo Spengler è un’icona da citare a sostegno di questa o quella tesi: sul perché, quando e come l’Oc
È UN TESTO FONDAMENTALE CHE SEMBRA TORNARE DI PREPOTENTE ATTUALITÀ (ANCHE SE, FORSE, PER LE RAGIONI SBAGLIATE)
cidente crollerà in una decadenza irreversibile; per colpa di chi; e cosa dovremmo fare per evitare il disastro prima che sia troppo tardi. Nulla di tutto questo interessava Spengler, benché lui scrivesse in un periodo più tragico del nostro. Cominciò a lavorarci negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ne concluse le ultime revisioni mentre il fascismo prendeva il potere in Italia e i segni premonitori del nazismo spuntavano in Germania. L’attualità non ossessionava l’autore, che guardava alla storia umana nell’arco dei tempi lunghissimi. Ben radicato nella cultura tedesca — soprattutto Goethe e Nietzsche — Spengler non voleva allertare o indirizzare i suoi contemporanei; non pensava che i suoi consigli avrebbero cambiato un granché. La sua filosofia della storia si avvicina a una sorta di biologia: le grandi civiltà umane per lui sono come degli organismi viventi, destinati a evolversi dall’infanzia all’età matura alla vecchiaia, fino alla morte. In questo senso il suo tramonto dell’Occidente era la constatazione di una fine certa e inevitabile, non legata a qualche presunto errore o perversione dei popoli o delle classi dirigenti. Un suo attento lettore, papa Ratzinger, accusava quel saggio di determinismo: il corso della storia vi appare abbastanza indipendente dalle scelte di noi umani. La sua visione del ciclo di vita delle civiltà si articola su millenni e ne abbraccia otto, tra cui quelle greco-romana, cinese, indiana, araba. La modernità di Spengler, che lo rende anomalo per il primo Novecento e lo avvicina alla nostra sensibilità, sta nel fatto che non è interessato a una gerarchia delle
RATZINGER LO ACCUSÒ DI DETERMINISMO: IL CORSO DELLA STORIA VI APPARE ABBASTANZA INDIPENDENTE DALLE SCELTE DI NOI UMANI
civiltà, non pensa che quella occidentale si distacchi in modo sostanziale dalle altre.
NÉ IMPERI ETERNI, NÉ CIVILTÀ IMMORTALI
Per certi aspetti la visione del filosofo tedesco ha trionfato, è diventata senso comune. A differenza del primo Novecento, quando ancora esisteva un’idea di “civiltà superiore” o perfino di un’investitura divina in favore dell’Europa cristiana destinata a salvare il mondo, oggi diamo per scontato che non esistono imperi eterni né civiltà immortali. La nostra non sfuggirà alla regola. La storia procede per cicli di ascesa e declino delle potenze e l’Occidente non farà eccezione. Per altre ragioni Spengler è figlio del suo tempo e a rileggerlo oggi è quasi incomprensibile. Il suo Occidente è fatto soprattutto di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, non include la Germania, in bilico tra Est e Ovest dal punto di vista culturale. La geopolitica è assente dal suo quadro di riferimento. Nella sua visione le civiltà non cadono perché soccombono nella competizione militare, economica, tecnologica. I rapporti di forze tra potenze non lo interessano.
Quando rispolveriamo dalle nostre librerie Il tramonto dell’Occidente, spesso vi aggiungiamo senza saperlo l’innesto sul pensiero spengleriano di uno scienziato italiano: Corrado Gini. Considerato come uno dei maggiori statistici di tutti i tempi (è suo l’indice di diseguaglianze tuttora più usato), un secolo fa Gini dava una veste demografica alla visione di Spengler. Per lo scienziato italiano le nazioni nella loro giovinezza hanno alti tassi di fertilità, poi con il benessere subentra la denatalità, a cominciare dalle classi sociali più elevate: donde lo stadio finale della decadenza, in cui le nazioni senescenti soccombono inevitabilmente nella competizione con quelle più giovani.
Spengler fa riferimento a Roma come al metro di paragone per ogni ascesa e caduta, avanzata e arretramento delle civiltà europee successive. Ricorda che i leader giacobini della Rivoluzione francese si consideravano gli eredi dei senatori romani, e che Napoleone voleva essere il nuovo Giulio Cesare. Perciò un altro autore che spesso “mescoliamo” a Spengler è lo storico inglese Edward Gibbon. Un secolo e mezzo prima del tedesco, alla vigilia della Rivoluzione francese, nel 1776 Gibbon raccontò la caduta dell’impero romano come un’allegorìa del destino che attendeva l’Inghilterra e l’Occidente. All’apogeo della Regina Vittoria anche Londra si percepiva, alla pari di Roma, come il centro di una civiltà sovranazionale, globalista e illuminata, culturalmente superiore ai barbari, portatrice di un universo di valori e con la missione sacra di esportarli, “civilizzando” altri popoli. Gibbon e Spengler sono i due autori di riferimento per noi tardo-occidentali, i loro due capolavori sono diventati due guide essenziali in un dibattito che per la verità è più antico di loro. È dalla caduta dell’impero romano, che “capire la fine di Roma” è diventato un assillo. Chiunque abbia tentato di ricostruire un impero europeo si è interrogato sui perché di quella caduta, onde evitare di fare la stessa fine. Dopo di allora ogni potenza, anche se è post-moderna come l’America che ha rinunciato a possedere colonie, ad un certo punto della sua parabola storica comincia a temere di fare la fine di Roma. E non solo per motivi militari. Il declino di una potenza talvolta s’identifica con la fine di un’intera civiltà, dei suoi valori. Migrazioni-invasioni barbariche che indeboliscono il modello valoriale dell’antica Roma, caduta dello spirito civico e della volontà di combattere, influenza di una religione “pacifista” come il cristianesimo, corruzione delle élite e crisi fiscale, sono alcuni degli ingredienti che spuntano dalle pagine di Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon e vengono rievocate a proposito dell’Occidente contemporaneo.
NON SFUGGIREMO ALLA REGOLA: LA STORIA PROCEDE PER CICLI DI ASCESA-DECLINO DELLE POTENZE E L’OCCIDENTE NON FARÀ ECCEZIONE
Il successo iniziale dell’opera di Spengler fu favorito dal momento terribile che attraversava l’Europa. Lo shock del primo conflitto mondiale evocava una patologia dell’Occidente e della sua cultura. Se ne occupò anche il padre della psicanalisi Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà (1929-30). Dopo la grande guerra arrivarono i nazifascismi, Stalin, la Grande Depressione.
CHE TIPO DI DECLINO È? SARÀ IRREVERSIBILE? E QUANTO DURERÀ? CON QUALI CONSEGUENZE? QUALI VINCITORI DECIDERANNO PER NOI?
IL TRAUMA E LA RESURREZIONE
La seconda guerra mondiale fu un altro trauma ma anche l’inizio di una resurrezione dell’idea di Occidente: alcune delle potenze alleate che avevano sconfitto Hitler e Mussolini si rifacevano ai valori della liberaldemocrazia, invocavano un nuovo umanesimo, riflesso nella Dichiarazione universale alla nascita delle Nazioni Unite. C’era però un temibile rivale dell’Occidente, l’Est comunista, e nella guerra fredda ricominciarono a circolare visioni “spengleriane”. Nel 1950-53 l’America fu costretta a un costoso pareggio nella guerra di Corea contro una coalizione tra Pyongyang, Pechino e Mosca. Il 1957 vide lo shock del satellite Sputnik: l’Urss aveva preceduto l’America nella conquista dello spazio. Il presidente John Kennedy nel 1960 annunciò il rischio di un sorpasso sovietico nel campo degli armamenti. Ancora per tutti gli anni Settanta anche a Occidente c’era chi scommetteva sul trionfo finale dell’“Oriente rosso”. Oppure dell’Oriente tout court: nel frattempo era avvenuto il miracolo giapponese, industria e finanza del Sol Levante sembravano in grado di piegare la supremazia americana. Crollato il Muro di Berlino nel 1989, dissolta l’Unione sovietica, ben presto apparve all’orizzonte la Cina. E di nuovo con l’ascesa economica, tecnologica e militare della Repubblica Popolare sono rimbalzati gli stessi interrogativi sul declino dell’Occidente. Insieme al dibattito sulle cause della decadenza, le responsabilità, gli antidoti.
Dai tempi di Confucio in Cina, di Platone ad Atene, di Machiavelli a Firenze e di Montesquieu a Parigi, ci si interroga sulle ricette che fanno il governo ideale e lo Stato sano. L’umanità si appassiona per questioni cruciali: quali sono le fondamenta di una pace durevole, che cosa garantisce il benessere e la sicurezza dei popoli nel lungo termine, quali società trovano un rapporto armonioso con la natura. Non sono solo i filosofi ad aver cercato le risposte: anche sacerdoti e militari, mercanti o scienziati, geografi ed economisti. La forza di una collettività dipende dal denaro e dalla tecnologia, dalla demografia e dal rapporto con l’ambiente; dalle regole del sistema, che includono un’idea dei diritti e dei doveri. Infine, c’è il ruolo della potenza militare, che spesso è influenzata da altri caratteri (efficienza industriale, capacità innovativa, coesione e disciplina); noi europei nel XXI secolo abbiamo sperato di relegare la guerra a un orrido passato, ma la logica delle armi rialza la testa e ci presenta il conto. La vitalità di un popolo si proietta nei rapporti con i vicini, amici o nemici; nelle relazioni internazionali, nelle alleanze, nelle politiche di potenza, purtroppo nei conflitti. Migrazioni e pandemie incidono sugli equilibri tra le civiltà. Terrorismi, fanatismi, ideologie dell’odio possono alterare il corso della storia. Il cambiamento climatico ebbe un peso già molti millenni fa. La posizione della donna, dei giovani, ha dato una fisionomia a intere società e periodi storici.
Per chi vive dentro uno di questi cicli, è urgente capire: di quale decadenza soffre l’Occidente? Stavolta è irreversibile? Quanto durerà il percorso in discesa? Quali ne saranno le conseguenze, per noi “decaduti”, e per tutti gli altri? Quali vincitori ci detteranno nuove regole e ci imporranno nuovi valori? La risposta di Spengler è disarmante: non dipende da noi; le civiltà hanno una “data di scadenza”.