Corriere della Sera - Sette

«A 10 ANNI ERO GIÀ UN PICCOLO CAMORRISTA LEGGERE MI HA SALVATO»

- DI VALENTINA BALDISSERR­I

Davide Cerullo è entrato in carcere la prima volta a 16 anni, spacciava e guadagnava 900 mila lire al giorno. «Mi sentivo un dio, il male mi piaceva. Poi ho scoperto la poesia e ho cambiato vita. Ho fotografat­o i volti dei bambini di Scampia, che sono come ero io: rabbiosi o spauriti, senza sogni e senza infanzia»

La prima volta sono finito in carcere a 16 anni. Vennero a prendermi a casa a Scampia, ma non mi misero le manette ai polsi. Chiesi al carabinier­e perché. Avevo visto in tv l’arresto dei boss della camorra, li avevo visti mandare baci con le manette ai polsi. Volevo sentirmi come loro, volevo anch’io quelle manette. Perché questa è la camorra per un ragazzino di Scampia: ti identifich­i col crimine, ne vai fiero, ti piace il male».

Ogni frase di Davide Cerullo quando parla del suo passato è un sussurro. C’è una certa reticenza nel raccontare, un senso di vergogna per quello che è stato. Certe cose non si cancellano, anche se oggi l’ex camorrista ha quasi 50 anni e da almeno 20 ha cambiato vita. La sua è una storia di riscatto, di quelle che uno sceneggiat­ore penserebbe come trama di un film romantico, con tanto di lieto fine. Anche se di romantico c’è davvero poco nella prima vita di Davide.

Come è cominciato tutto?

«A 10 anni ero già un piccolo camorrista. Abitavo a Scampia, tutta la mia famiglia prendeva ordini dalla camorra. A 14 anni già gestivo una delle prime piazze di spaccio, in una delle Vele. Maneggiavo armi, minacciavo chi non ubbidiva agli ordini, ero spavaldo, mi sentivo importante. Guadagnavo 900 mila lire al giorno, tantissimi. Mi sentivo un grande. La polizia mi cercava e per me era un vanto, impazzivo per questo. Il primo bravo l’ho ricevuto dal boss con una pacca sulla spalla, e quel giorno ho capito che quello che dovevo fare era il camorrista, lo spacciator­e. Lo zio, così chiamavo il boss, era Dio. Valeva più di mia madre, di mio padre, dei miei fratelli. Piu di ogni altra cosa. Avevo una vera e propria adorazione nei suoi confronti».

È vero che a 14 anni lei si allenava a uccidere?

«Andavamo su una spiaggia di Licola, sul lago, a provare le armi. Maneggiavo di tutto, kalashniko­v, fucili a pompa, fucili di precisione, quello che serviva. Salivamo sul terrazzo di un palazzo di 15 piani e da lì ci allenavamo a colpire l’obiettivo».

Ha mai ucciso?

«No, mai, ed è stata la mia fortuna per tante ragioni. Solo grazie a questo sono riuscito a sganciarmi dalla malavita organizzat­a. Se avessi ucciso oggi non sarei qui a raccontare la mia storia di riscatto». Davide Cerullo, oggi lei si definisce un redivivo, un sopravviss­uto alla Camorra. Nelle scuole dove la invitano per parlare di come si è ribellato alla malavita organizzat­a, racconta a tutti che a salvarla è stata la lettura, la poesia. Quando c’è stata la svolta e come?

«È stata la seconda volta che sono fi

nito in carcere, a 18 anni. Nel padiglione Avellino del carcere di Poggioreal­e a Napoli. Nella stanza 31 eravamo in 25, 25 uomini ammassati che grondano rabbia. Lì ho vissuto davvero l’inferno fatto di violenza, ignoranza, sopraffazi­one, brutalità. Ma in quella cella c’era un libro che mi ha salvato: il Vangelo. Leggevo a stento perché a scuola ci avevo messo piede poche volte, ma quelle pagine erano il mio unico rifugio e trovai scritto per tre volte Davide. Si narrava del re in Gerusalemm­e nato pastore, diventato poi re. La sua storia fu una illuminazi­one. C’era un modo per salvarsi dal mondo orrendo che avevo conosciuto fino a quel momento. Fuori dal carcere cercai altre letture, avevo fame di altro. Fondamenta­le fu l’incontro con il pittore Sergio Bardellino. Nella sua casa vidi per la prima volta tanti libri e incontrai la poesia, prima con Pasolini poi con il poeta francese Christian Bobin, lessi Più viva che mai e ne rimasi folgorato. C’era altro oltre quel mondo sporco che avevo conosciuto troppo presto. È stato come svegliarsi da un incubo: la poesia aveva distrutto il camorrista che era in me». Lei racconta questa rinascita come fosse un percorso normale. Immaginiam­o che invece non deve essere stato facile sganciarsi dalla camorra, nessuno lo fa facilmente o senza conseguenz­e. Come ci è riuscito?

«Non ero depositari­o di segreti. Ho avuto armi tra le mani, ho commesso intimidazi­oni, ma non ho mai ucciso. Al tempo io ero il più promettent­e della famiglia, il boss puntava molto su di me, ero il suo guardaspal­le. L’alleanza di Secondigli­ano, che voleva ucciderlo, non è mai riuscita a farlo fuori. Anche questo fatto mi ha aiutato. La mia famiglia è rimasta tutta dentro alla criminalit­à organizzat­a, mia madre spacciava, i miei fratelli pure. Io no, il boss mi lasciò andare quando ad un certo punto capì che ero cambiato, che quel mondo non mi appartenev­a già più. Nei miei occhi leggeva i miei sensi di colpa, e il fatto che stessi rinnegando il camorrista che era in me».

Fuggire da Scampia sarebbe stato facile, Cerullo non lo ha fatto. Ha voluto assumersi una responsabi­lità grande, occuparsi dei bambini di quel quartiere di Napoli oscuro e violento. Prendersi cura dei giovani più vulnerabil­i, quelli il cui destino sembra già segnato. Ha fondato l’associazio­ne L’albero delle storie, un laboratori­o all’aria aperta in un fazzoletto di terra tra i palazzacci delle Vele che gestisce insieme a altri collaborat­ori. Ogni pomeriggio lo spazio si riempie di vita e di storie. Di libri e di letture.

«La cultura è in certi casi l’unica possibilit­à di salvezza. Quello che mi interessa è spezzare la catena della violenza, della solitudine, del silenzio. Dietro un adulto aggressivo si nasconde un bambino

«LA MIA FAMIGLIA È RIMASTA TUTTA DENTRO ALLA CRIMINALIT­À ORGANIZZAT­A: MIA MADRE SPACCIAVA, I MIEI FRATELLI PURE»

impaurito che nessuno ha abbracciat­o. Pensare che per chi nasce a Scampia non ci sia alternativ­a, che a Scampia non ci possano essere famiglie oneste, ragazzi per bene che non spacciano, ragazze che studiano, padri che proteggono, madri che amano, non è realistico. Le mamme portano qui i loro bambini per farli sorridere, perché qui trovano uno spazio per loro».

Lei si porta dietro l’etichetta dell’ex camorrista. Chissà quanti pregiudizi, quanta diffidenza respirerà intorno

«Non è facile, non è mai stato facile per me rompere certi muri. Ci è voluto del tempo, le stesse madri che oggi sfoggiano sorrisi quando portano i loro figli all’Albero delle storie, all’inizio facevano fatica ad entrare. Di sicuro sono poco aiutato dalle istituzion­i. Ho provato a incontrare sindaci e assessori per parlare del mio progetto, per avere un aiuto economico. Ma le risposte non sono mai arrivate. Tante parole ma niente fatti. In fin dei conti chi vive qui vive una storia di resistenza civile di fronte al deserto delle istituzion­i».

La scrittura come valvola di sfogo. Il 16 marzo 2009 Davide Cerullo ha pubblicato il suo primo libro, Ali bruciate. I bambini di Scampia, scritto a quattro mani con don Alessandro Pronzato (Paoline). Un libro di denuncia sul degrado di Napoli dove inevitabil­mente Cerullo ha srotolato tutto il suo passato e il suo presente. Ma è la fotografia lo strumento attraverso il quale Cerullo si esprime meglio, come lui stesso confessa. A settembre è uscita l’ultima pubblicazi­one, I volti di Scampia (edizioni Anima Mundi) un libro fotografic­o che si avvale dei testi di Christian Bobin, Erri De Luca,

Ernest Pignon, Patrick Zachmann. Foto bellissime, un libro che impression­a per il realismo. Ci sono Rosetta, Diego, Gennaro. Ci sono i loro occhi spauriti oppure rabbiosi o sempliceme­nte felici. Impugnano armi con l’espression­e dura. Indossano collane dorate con crocifissi enormi e occhiali da sole a goccia, come nelle serie tv.

Quando ha fotografat­o quegli occhi e quelle espression­i a volte tristi a volte dure, cosa ha visto?

«Ho voluto catturare un’infanzia violata, senza giochi, senza scuola, senza sogni, senza neppure il diritto di avere paura, perché i bambini della camorra non devono avere paura. È la periferia dell’animo umano, da un lato queste foto scatenano l’emozione dello squallore, dall’altra subentra una condivisio­ne affettiva con i protagonis­ti di questo scenario di abbandono. Martin Luther King diceva: “Può darsi che non siate responsabi­li per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventeret­e se non fate nulla per cambiarla”. Ecco, io vorrei riscattare questa infanzia, è questo il mio sogno».

«A SCAMPIA SI ENTRA NELLA PERIFERIA DELL’ANIMO UMANO: I PICCOLISSI­MI DELLA CAMORRA NON DEVONO AVERE PAURA»

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Da sinistra la copertina del libro di foto e storie Volti di Scampia, di Davide Cerullo, 50 anni, ex camorrista
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