IL SENSO TRAGICO DELL’ESISTENZA L’ASSURDO ESPRESSO CON LA COMICITÀ AMO IL CINEMA DI NANNI MORETTI
In agosto Moretti ha compiuto 70 anni e io, che ne ho 30 in più da quando lo conobbi attraverso il don Giulio de La messa è finita, mi sono chiesta perché il suo cinema non mi abbia mai abbandonata. In che modo abbia continuato a riguardarmi, da persona e da scrittrice.
Credo sia per il suo senso tragico dell’esistenza. Ma come, quei film fanno ridere, alcune battute sono entrate nel linguaggio collettivo, e tu parli di tragedia?
Che per indagare la condizione umana Moretti scelga il comico non smentisce il suo senso tragico, anzi lo conferma. Non c’è spiegazione al dolore, non c’è Dio, non ci sono dèi a dare significato, o a salvare, nemmeno per il prete don Giulio; c’è l’assurdo, e l’assurdo è comico. Come in Kafka o in Bernhard, il comico morettiano non è un contrappunto del tragico per alleggerire i toni, è esattamente ciò che impedisce ogni consolazione, che nega perfino la catarsi della tragedia.
Michele Apicella fa ridere perché si comporta alla stregua di Dio: decide chi deve vivere o morire, giudica, non entra mai nella vita, ne rimane spettatore. Fa ridere perché è assolutista come Dio, o come un bambino. Invece il Nanni di Caro diario e di alcuni film successivi è umano per intero e, se strappa risate per i suoi gesti infantili o un po’ folli, suscita anche un sentimento nuovo: la tenerezza. E trova fugaci squarci di significato possibile nell’esistenza.
Nel suo cinema c’è un’ossessione quasi sacra per le parole. Quando in Palombella rossa Apicella condanna la parola che, appena scritta, «diventa menzogna», sta ribadendo l’inadeguatezza del linguaggio nel render conto della complessità del reale, una questione squisitamente letteraria. Penso a Bernhard, per il quale il linguaggio è incapace di rivelare il mistero del dolore – e tuttavia scrivere è il compito da eseguire. Penso a Bachmann, che proprio per questo motivo definiva la lingua «il castigo».
Devozione per le parole e coscienza tragica che si dispiega nella Storia: eccola, forse, la lezione di scrittura che Moretti mi ha dato. Benché lui sia visionario al punto da cambiarla, la Storia, come nel Sol dell’avvenire.
Malgrado si dica che ha raccontato una generazione precisa, la sua, io ho sempre sentito che parlava pure a me, e di me. I suoi film non smettono mai di dirmi quel che hanno da dire, al pari dei classici, addirittura superando, chissà, le intenzioni dell’autore. È quel che accade soltanto alle opere grandi.
Vidi per la prima volta un film di Nanni Moretti a 15 anni, durante le ore di filosofia, e fu un amore istantaneo, come solo nell’adolescenza, uno di quelli che ti cambiano lo sguardo, che partecipano alla costruzione della tua identità: per questo gli resti fedele per tutta la vita.
DAL DON GIULIO DE LA MESSA È FINITA NON L’HO PIÙ ABBANDONATO: ORA HA 70 ANNI, MA DA QUANDO IO NE AVEVO 15 SENTO CHE PARLA A ME E DI ME