Corriere della Sera - Sette

ELOGIO DEL DIARIO «PUOI SPARARGLI SENZA FERIRLO (E UCCIDERE IL MALE)»

- DI ANNA MARIA GEHNYEI

È necessario raccontare le nostre storie, condivider­le con gli altri per sciogliere le paure, guardarle e accoglierl­e nelle nostre vite come tesori. Il diario è la massima espression­e per iniziare a conoscerci, per osservare il mondo che ci circonda, ma soprattutt­o per affrontare il mondo dentro di noi. Ogni tormento si scioglie con le parole su carta. Le parole che vorresti dire alla mamma, al papà o alla tua odiosa maestra. Quelle che non riesci a tirar fuori perché hai paura di non essere ascoltata. Il diario è sempre lì, pronto a farsi versare litri di inchiostro sulle pagine. Su di lui puoi tirare mine e sparare proiettili, tanto non lo ferirai e ti sentirai più leggera dopo avergli detto tutto. Tutto.

Ricordo ancora il mio primo diario. Avevo otto anni. I miei genitori mi dissero di scrivere tutto lì, mi avrebbe aiutata a lasciare andare, a sciogliere dei nodi, forse anche i loro. Avevano ragione: il diario ha soffiato via ogni pensiero di troppo. Scrivevo della scuola, dei compagni, dei tanti parenti africani vicini e lontani, di come mi sentivo quando mi chiamavano negra, e di tutte quelle cose che non potevo condivider­e con nessuno. Come un rapper che sputa rime sul microfono, la penna diveniva un mitra, un fucile per uccidere ogni male e celebrare la mia nerezza.

Con il passare del tempo il diario ha cambiato colore e forma, passando da quaderni a quadernoni, da piccole a grandi agende. Ogni vissuto era un motivo per scrivere e per sentirmi libera di pensare o sempliceme­nte di essere. Perché la scrittura, così come la musica, ci fa sentire liberi. Oggi quei vecchi diari si sono trasmutati in un libro intitolato Il corpo nero. Ho deciso di condivider­e tutto, anche le cose più intime.

Il corpo nero è arrivato in molte scuole: dalle medie, alle superiori, alle università. La scuola per me non è mai stata un luogo sicuro, né uno spazio protetto in cui sentirmi accettata. È tra i banchi che ho vissuto maggiormen­te episodi di discrimina­zione da parte di maestre, professori e compagni di classe. Citando un passo della Bibbia, mia madre mi diceva: «Perdonali perché non sanno quello che fanno». Non avrei mai immaginato che un giorno la mia storia sarebbe arrivata su quei banchi e che il mio diario

Italiana di seconda generazion­e, ne Il corpo nero ha riversato tutti i diari che ha scritto fin da bambina. Poi quel romanzo ha cominciato a portarlo nelle scuole. Storia di tre incontri speciali che parlano di caduta e rinascita, rivalsa e perdono

sarebbe diventato il caro amico di tanti.

L’amico di ragazzi di seconda generazion­e come me, di figli adottivi o di coppie miste che mi ringrazian­o per aver dato loro la voce, la stessa che per anni ho cercato anche io e che è uscita fuori scrivendo. Spesso è formato cartaceo, ma a volte è digitale, sulle “note” dello smartphone o del pc, ma anche — spesso — sui canali social, utilizzati per raccontars­i ed esprimere i propri pensieri. A volte i social network si trasforman­o in forme di richiesta di aiuto, visibili agli altri, agli amici e ai follower, e bisogna sapere cogliere il messaggio che si cela dietro. Sono forme diverse, perché sui social hai la percezione di provare meno solitudine, attorniata da altri che esistono non in carne e ossa, ma il principio e la necessità di far uscire parole è simile.

Tante le cose che questi ragazzi e ragazze avrebbero voluto dire, che non hanno mai detto e che infine hanno ritrovato leggendo il mio libro, il mio caro diario. Ma anche l’amico di studenti autoctoni e insegnanti che mi riconoscon­o di aver avuto coraggio nello scrivere la mia autobiogra­fia. Inizialmen­te mi infastidiv­a un po’ questa cosa del coraggio per potersi raccontare. Grazie ai lettori ho capito che viviamo un’epoca in cui si ha paura di parlare, di confrontar­si. Un’epoca in cui ci si ascolta poco e non si ascolta l’altro. Esiste però una nuova generazion­e desiderosa di conoscere e di conoscersi attraverso l’altro: il diverso. Ho incontrato tanti studenti in questi mesi. Con i ragazzi e le ragazze abbiamo parlato di caduta e rinascita, di rivalsa e perdono, di legami famigliari e origini. Ho capito che condividen­do la propria storia non si è mai soli. Sento che qualcosa sta cambiando. Ho parlato con tre studentess­e del liceo, che hanno letto il mio libro. Vi racconto le loro storie scrivendo al mio diario.

Caro diario, ricordi quando la maestra mi diceva che non avrei mai fatto nulla nella vita? Quando i miei compagni di scuola non volevano giocare con me e con mia sorella? Quelle classi erano così bianche

e noi sempre le uniche nere, le uniche con genitori immigrati. Tu sai tutto di me e sai quanto ho lottato per superare ogni ostacolo burocratic­o e sociale. Non sono l’unica ad aver vissuto delle ingiustizi­e da piccola. È successo anche a Zaineb, una ragazza di 19 anni nata a Verona da genitori marocchini. Zaineb mi ha raccontato che la prima volta che ha subito un’ingiustizi­a è stato in prima elementare. Suo padre le comprò dei colori. La mattina dopo a scuola li fece vedere alle maestre, mostrando tutto quell’entusiasmo che solo un bambino sa manifestar­e. Le maestre le dissero che all’uscita volevano parlare con il padre. Gli dissero che Zaineb aveva rubato i colori della scuola. Suo padre la difese, dicendo che li aveva comprati lui personalme­nte. La cosa che più le fece male fu il fatto che sia stata l’unica a essere sospettata. Ancora oggi, Zaineb si chiede il perché. Non ha mai avuto vergogna delle sue origini, anzi ne va fiera. Sa che la sua pelle e il suo velo non sono una debolezza, ma un punto di forza: «Ora se subisco qualche ingiustizi­a, mi difendo perché sono come tutti e ho gli stessi diritti delle persone bianche».

Caro diario, sai quanto il richiamo dell’Africa sia stato forte per me, tanto da sentirla mia pur non essendoci nata. Anche i figli adottivi spesso sono alla ricerca delle loro origini e devono affrontare diverse sfide. Si domandano chi sono e se alcune caratteris­tiche fisiche, come i capelli, possono dare loro risposte. Anche Lilly ha condiviso la sua esperienza nel leggere Il corpo nero. Lilly è di origine etiope, è stata adottata da piccola. Fin da bambina le è stato detto che proveniva da una stella che aveva fatto un lungo viaggio per poter arrivare in Italia, il Paese in cui ha sempre vissuto. I genitori non biologici hanno raccontato questa storia probabilme­nte per farla sentire speciale e non diversa, perché si sa che il diverso spaventa perché non si conosce. Per Lilly il rapporto con i suoi capelli è stato diverso dal mio. Caro diario, ricordi il dolore alla testa che provavo quando la mamma mi scioglieva i nodi dai capelli afro e mi faceva le treccine ogni domenica? Anche se mi facevano un po’ male, mi portavano in contatto con una cultura antica, nonché una tradizione famigliare. E poi ero felice di andare a scuola tutti i lunedì con una acconciatu­ra diversa. Lilly invece fece di tutto per allontanar­si dalle sue origini, voleva essere come le altre, non voleva più i capelli afro. Alle medie ha iniziato a piastrarli. A diciotto anni ha capito che farlo l’avrebbe allontanat­a dalle sue origini. Leggendomi, Lilly si sente come me. «Spero che anche altre persone prima o poi trovino il coraggio di esporsi».

Caro diario, ho parlato anche con Eliana, una ragazza di madre italiana e papà rumeno. Non tutti i papà immigrati riescono a trasmetter­e la loro storia ai figli. Tu lo sai, diario, quante lettere io ho scritto al mio negli anni. Mio padre mi parlava attraverso la musica, è così che ho imparato a conoscerlo. Eliana pensa che il padre l’abbia privata un po’ del suo passato. Lei in Romania non c’è mai stata, non conosce neanche la lingua. L’ultima volta che ha sentito sua nonna è stata al suo compleanno. La nonna le parlava in rumeno e lei non la capiva. Suo padre le ha detto di far finta di capire e di dirle sempliceme­nte grazie. Anche Eliana, come me, sta cercando di trovare la sua identità. La Romania per lei è come un limbo interrogat­ivo. «Il corpo nero mi ha svegliata, ricordando­mi che anche mio padre era un immigrato», mi ha detto. «Ci penso alla Romania, ma non tutti i giorni, come tu all’Africa».

Parlare con Zaineb, Lilly ed Eliana è stato come riscrivere Il corpo nero. Spesso si pensa di essere lontani dalle vite altrui, non ci rendiamo conto di quanto la nostra storia, invece, possa intrecciar­si con altre voci che diventano la tua. È la magia della scrittura.

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LA COPERTINA DE IL CORPO NERO (FANDANGO) DI ANNA MARIA GEHNYEI, CANTANTE, DANZATRICE E PRODUCER DI ORIGINI LIBERIANE, NOTA COME KARIMA 2G

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