VITTORIO GANCIA
MISTER SPUMANTE, (QUASI) RAPITO DALLE BR, CHE LODÒ MARA CAGOL: MI SALVÒ E POI MORÌ
Era il re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia nel 1975, quando aveva 43 anni. Viveva una vita solidamente laboriosa e dorata a capo dell’impero di famiglia, un’azienda legata al territorio ma con forti estensioni internazionali. Già il bisnonno da Canelli, nell’astigiano, se ne era andato in Francia a esplorare metodi di lavorazione e a importare il metodo champenoise. Dopo anni di sperimentazione, nel 1865 il primo spumante italiano. «Nella nostra cantina storica c’è un ambiente, chiamato la polveriera, dove per molto tempo erano frequenti le esplosioni delle bottiglie» ha ricordato il figlio di Vittorio, Lamberto, con Civiltà del bere.
Poi l’azienda era cresciuta di generazione in generazione grazie anche all’attenzione anticipatoria al mondo della comunicazione, negli Anni 40 il padre di Vittorio, altro Lamberto della dinastia, decide di finanziare Biancaneve e i sette nani di Walt Disney e usa le immagini del film per le sue pubblicità, Gancia diventa fornitore di Casa Savoia ed entra in letteratura, con l’omaggio di Cesare Pavese nella Luna e i falò («a Canelli dove gli industriali che fanno il vino sono i Gancia»).
Attenzione alla comunicazione innovativa che si trasmette per Dna, perché lo stesso Vittorio, affiancando il padre nel periodo del boom economico non solo allarga i rapporti internazionali arrivando al Giappone, ma è il primo a lanciare la moda dell’imprenditore che ci mette la faccia, con la pubblicità in cui recitava: «Mio bisnonno brindava con mio nonno, mio nonno brindava con mio padre, mio padre con me e io brindo con i miei figli e con tutti voi».
Stimolante, nonostante il carattere schivo, ambasciatore del made in Italy ma anche alfiere di una vita semplice, a Canelli e nella zona era per tutti il «signor Vittorio» (a un pranzo troppo lento alla fiera del tartufo d’Alba, si alzò e disse: sbrigatevi, alle 3 c’è la partita) quando incrocia la storia drammatica del terrorismo italiano e viene rapito dalla
Brigate rosse. Forse proprio per la sua vita semplice e defilata la colonna torinese delle Br – guidata da Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio – aveva scelto lui, bersaglio apparentemente facile per un esproprio proletario che potesse poi finanziare l’attività terroristica. Nel primo pomeriggio del 4 giugno 1975, Vittorio Gancia esce alle 14,45 con la sua Alfetta dalla villa in periferia per andare in Corso Libertà, sede di palazzo Gancia. Il percorso è breve, circa un chilometro. Ma lo intercettano e lo fermano con una Fiat 124 verde e un furgone: viene preso e portato a Cascina Spiotta d’Arzello, un casale che Mara tre anni prima aveva comprato per sei milioni e mezzo, individuandolo come luogo strategico perfetto per un nascondiglio.