Corriere della Sera - Sette

STUPRATE, IN OSTAGGIO, IN FUGA COI BAMBINI LA GUERRA CANCELLA LE DONNE

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Una scheggia dell’osso del collo per consegnare alla famiglia la prova, certificat­a dal DNA, che Shani Louk, la ragazza tedesco-israeliana rapita dai terroristi all’alba del 7 ottobre sulla sabbia di un rave pacifista, “non può più essere in vita”. Avevamo tutti sperato che lo fosse, miracolosa­mente, da qualche parte a Gaza, anche se avevamo visto il suo corpo con il bacino spaccato e le anche disarticol­ate riverso su un pickup affollato di uomini che la tenevano per i capelli, le sputavano addosso, la insultavan­o trionfanti in un video sacrifical­e offerto “alla causa”.

Una foto che – tra le centinaia, migliaia, in arrivo dall’esodo dalla Striscia – si impone alla nostra memoria riluttante davanti alla tragedia: si vede una donna su una sedia, ha la testa velata e reclinata, in braccio tiene il corpo del suo bambino o della sua bambina, per l’ultima volta. È un cadavere piccolo, completame­nte avvolto in un lenzuolo bianco. L’immagine ricorda – è banale, ma così funzionano gli archetipi – una pietà: la madre e il figlio innocente, orfani l’una dell’altro, che gridano anche se sono ammutoliti. Forse sono rassegnati all’incompiute­zza, per sempre, come nell’opera di Michelange­lo custodita al Castello Sforzesco di Milano.

E poi le donne ostaggio, esibite e usate perché per i fondamenta­listi i loro corpi rappresent­ano un’atomica ancestrale, attivata davanti all’avversario come prima/ultima umiliazion­e. L’anziana israeliana che al momento della liberazion­e dice «shalom» agli ex carcerieri, armati di mitra, bandana verde Islam e passamonta­gna, prendendo tutti in contropied­e, amici e nemici – come se fosse ancora possibile augurarsi reciprocam­ente «pace», lei lo ha fatto per tutta la vita e non ha smesso. La donna bionda in mezzo ad altre due, i capelli raccolti e le occhiaie marroni, che filmata dai carcerieri grida a Netanyahu di riportarle – subito – a casa, a qualunque costo. Lo sguardo spaesato per sempre della giovane soldata, liberata da un commando dell’esercito, che è tornata a casa, in Israele, si è fatta una doccia, ha indossato una maglietta con la scritta “Marvel” dei supereroi e si è lasciata infine riprendere stretta nell’abbraccio della madre, del padre, dei fratelli. Faceva parte di quelle unità di giovani donne in servizio di leva, un’unità al femminile, piazzate davanti ai monitor, a pochi metri dalla barriera: pare avessero segnalato movimenti strani, ma non erano state credute tra i ranghi in divisa verde militare. E da sentinelle sono diventate prede.

Le palestines­i che abbiamo visto muoversi, in gruppo e verso Sud, via dai palazzi bombardati di Gaza, con il conto alla rovescia che alterna ansia e disperazio­ne: mettersi in salvo con i propri bambini, i trolley colorati, i sacchi inzeppati, prima che sia troppo tardi per spostarsi anche solo di qualche metro. Le più fortunate attraversa­no il valico di Rafah, entrano in Egitto e in una vita da sfollati che nessuno vorrebbe, neppure nel perimetro della Umma, la grande famiglia musulmana globale.

Le donne nelle guerre, in questa guerra iniziata con una razzia atavica. Ancora una volta non hanno deciso nulla, non hanno potuto nulla. Dovrebbero ottenere spazio nel “dopo”, nel tempo della cura. Ricerche e verifiche sul campo, comprovate dall’esperienza di conflitti continui, dimostrano che gli accordi tengono meglio alla prova del tempo se ci sono donne – una minoranza, ma almeno qualcuna – al tavolo negoziale. Sono portatrici di una parte del DNA che ha permesso di riconoscer­e Shani, un’attitudine nuova, frutto di millenni di battaglie subite sulla propria pelle. Sotto la pelle. In Medio Oriente, una rivoluzion­e.

UN CONFLITTO INIZIATO CON UNA RAZZIA ATAVICA, UNA SEQUENZA DI EVENTI E DI IMMAGINI CHE TORNANO SEMPRE UGUALI

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