NASSIRIYA LA GUERRA CHE ABBIAMO DIMENTICATO
La mattina del 12 novembre 2003 era il momento dei no-global, e a Parigi s’apriva il Forum sociale europeo. Era il momento di Valentino Rossi, che firmava con la Yamaha e diventava lo sportivo italiano più pagato. Era il momento della Georgia, dove scoppiava la Rivoluzione delle Rose. Forse, era anche il momento d’andarsene dall’Iraq: alle 10.40, il camion della morte piombò sulle protezioni quasi inesistenti della base Maestrale, a Nassiriya. Un carabiniere riuscì a uccidere i due kamikaze, ma non a evitare i 28 morti e il peggior attacco nella storia del peacekeeping italiano.
Quella strage fu, per violenza, come il checkpoint Pasta di Mogadiscio. Ma molto peggio. E nei numeri, come la moria dell’uranio impoverito in Bosnia. Ma molto più sanguinosa. Nassiriya ci avrebbe lasciato tre anni d’attentati, sparatorie, battaglie, una cinquantina di vittime. E vent’anni del nostro meglio e del nostro peggio, quando si tratta di ricordare i nostri Caduti. I funerali solenni a Roma, con Ciampi, e la Giornata del Ricordo. Le decine di vie e piazze, intitolate dalla Lombardia alla Sicilia, e i film, le canzoni, le inchieste. Il solito fascicolo contro ignoti aperto dalla Procura di Roma, richiuso perché gli ignoti rimangono sempre tali. Le onorificenze negate e le commemorazioni al Festival di Sanremo. Le condanne dei vertici militari – perché non l’avevate previsto? – e le polemiche politiche: ma che ci facciamo in Iraq? Gli spray infami sulle lapidi – «servi di Bush» – e il figlio di Gheddafi, Saif, che un bel giorno sarebbe venuto a Milano a farci pure la lezioncina: «Quel camion-bomba fu come via Rasella: un legittimo atto di resistenza»…
C’è una foto famosa della strage di Nassiriya (in alto): un caporale sardo che s’aggiusta l’elmetto, disperato ed esausto, mentre guarda intorno il disastro. Il sudore, le lacrime, i compagni morti. Il caporale oggi ne ha fatto un poster: «Mi serve per mostrare a mia figlia perché quei ragazzi sono morti laggiù». La fotoreporter di quello scatto, Anja Niedringhaus, vinse il Pulitzer e qualche anno dopo andò in Afghanistan. A morirci. Raccontando un’altra guerra che abbiamo già dimenticato.