Corriere della Sera - Sette

IL NOBEL PER LA PACE CHE HA SCELTO DI CORRERE COME PRESIDENTE «FERMARE LA VIOLENZA È ECOLOGIA DA MEDICO CURO LE DONNE STUPRATE»

- DI EDOARDO VIGNA

Nel 2018, un anno prima del Covid, Denis Mukwege, 68 anni, ha vinto il Premio Nobel per la Pace: ginecologo e ostetrico, aveva fondato l’ospedale Panzi di Bukavu, nella parte orientale della Repubblica Democratic­a del Congo, dove è diventato uno dei massimi esperti mondiali nel trattament­o dei danni fisici dovuti allo stupro. Stupri di guerra, per lo più, quelle guerre che nel suo Paese sono senza fine. All’ospedale, e con la sua Fondazione, ha curato più di 80mila donne. Ora ha deciso di provare a cambiare le cose anche in un altro modo: alle elezioni di dicembre correrà per la presidenza di un Paese di 90 milioni di persone, pieno di immense ricchezze naturali sfruttate senza limiti né rispetto, e di altrettant­o enormi povertà. Essere stato così immerso negli orrori dei più diversi conflitti ha dato al dottor Mukwege la forza e la convinzion­e di vedere cosa occorre fare: da dove si deve partire, allora, per creare una società giusta e sostenibil­e?

«Per costruire una società del genere qui dobbiamo prima affrontare le cause profonde della violenza e dei conflitti. Per me, raggiunger­e l’uguaglianz­a di genere è una componente chiave. È imperativo dare priorità all’eliminazio­ne della violenza sessuale e di genere. Inizia con la garanzia dell’accesso alle cure, l’attuazione di strategie di prevenzion­e, il rafforzame­nto delle reti di supporto a chi è sopravviss­uto e dei meccanismi legali per perseguire i trasgresso­ri. Allo stesso tempo, dobbiamo adottare misure di “giustizia di transizion­e”, offrendo riparazion­e per le atrocità del passato e promuovend­o la riconcilia­zione all’interno della comunità. Combinando questi sforzi con l’impegno per la sicurezza, l’istruzione, l’emancipazi­one economica e una governance responsabi­le, possiamo aprire la strada a una società fondata sulla dignità, l’uguaglianz­a e una pace duratura».

Lei ha detto: «Credo nel cambiament­o, altrimenti avrei abbandonat­o la battaglia. Non ho dubbi che i congolesi sarebbero in grado di scavalcare le montagne: hanno solo bisogno di sapere che il cambiament­o è possibile». Qual è il primo cambiament­o necessario?

«Quello cruciale è la fiducia collettiva nella possibilit­à del cambiament­o stesso. Quando il popolo congolese crederà con tutto il cuore nella propria capacità di spezzare il ciclo dello sfruttamen­to e della sofferenza, troverà la forza e la determinaz­ione per affrontare le cause profonde della violenza e promuovere la giustizia. Questa è la pietra angolare di ogni futuro di speranza».

Cosa le fa ancora credere negli esseri umani, nonostante ciò che ha visto?

«È proprio perché sono stato testimone dell’incredibil­e resilienza e forza degli esseri umani, in particolar­e delle donne che ho curato all’ospedale e alla Fondazione Panzi che hanno vissuto orrori indicibili. Nonostante sopportino un dolore inimmagina­bile, trovano il coraggio di guarire e ricostruir­e non solo le loro vite, ma anche le loro comunità. La loro forza è stata la forza trainante della mia dedizione a questo lavoro per oltre 25 anni».

La sostenibil­ità riguarda anche l’ambiente in cui vivete. La foresta del fiume Congo è il primo polmone verde della Terra, miniera delle materie più appetite da grandi potenze e multinazio­nali, oro o coltan che sia. L’avidità per queste risorse non può che alimentare il ciclo di violenza e instabilit­à.

«È un circolo vizioso, guidato dalla domanda di minerali critici per la cosiddetta transizion­e verde dell’Occidente, che aggrava le sfide ambientali che la regione deve affrontare. Alla Fondazione abbiamo osservato una correlazio­ne preoccupan­te: i tassi di violenza sessuale aumentano intorno alle aree minerarie. Ciò evidenzia il legame diretto tra lo sfruttamen­to delle risorse, il degrado ambientale e il danno alle comunità vulnerabil­i. È fondamenta­le affrontare questi problemi sistemici nell’industria mineraria, fornendo al contempo un supporto alle sopravviss­ute. In tal modo, possiamo proteggere sia le donne sia l’ambiente da ulteriori danni». Il suo Paese chiede maggiori finanziame­nti per i progetti climatici.

Senza, nuove trivellazi­oni petrolifer­e

DENIS MUKWEGE: «LE AGGRESSION­I CRESCONO INTORNO ALLE AREE MINERARIE. C’È UN LEGAME FRA DEGRADO AMBIENTALE E DANNO ALLE COMUNITÀ»

potrebbero sostituire le piccole attività, portando altre devastazio­ni sociali e ambientali.

«Penso che il più importante “progetto climatico” nella Repubblica Democratic­a del Congo dovrebbe concentrar­si sull’eliminazio­ne dello sfruttamen­to, della violenza e degli abusi sessuali prevalenti nelle comunità minerarie. Affrontare questo problema critico riduce il degrado ambientale associato all’estrazione delle risorse ma dà anche priorità alla sicurezza e alla dignità delle donne colpite in modo sproporzio­nato dalla violenza sessuale in queste aree. Concentrar­si sull’eliminazio­ne di tale violenza stabilisce un precedente vitale per una gestione responsabi­le delle risorse, e significa creare un ambiente in cui il benessere delle comunità e la conservazi­one del mondo naturale siano tenuti in uguale consideraz­ione». Viviamo tempi orribili, che lei conosce bene. Qual è la prima cosa a cui pensa quando pensa alla guerra?

«Quando penso alla guerra non posso fare a meno di pensare al suo impatto sproporzio­nato sui più vulnerabil­i. I corpi delle donne e dei bambini troppo spesso diventano il campo di battaglia. Sono testimone delle sopravviss­ute agli stupri in tempo di guerra, l’insondabil­e sofferenza che sopportano pesa molto sul mio cuore. Dai neonati alle donne di 80 anni: la violenza non conosce limiti».

Qual è la cosa più terribile a cui lei ha dovuto assistere?

«Ho assistito a non poche atrocità. Dal massacro dell’ospedale di Lemera – dove ho iniziato la mia carriera e dove sono stati uccisi i miei pazienti e colleghi – al reparto chirurgico di Panzi, dove ho operato i corpi di piccoli violentati. Sono queste le cose che mi motivano a continuare a lottare».

Lei è il massimo esperto di ricostruzi­one interna del tratto genitale femminile dopo uno stupro, guida un team di migliaia di persone che compiono anche 10 interventi chirurgici al giorno. Accanto al suo ospedale ha costruito una struttura dove le pazienti – e i loro bimbi – trovano rifugio. Le donne imparano a cucire, a tessere, per diventare autosuffic­ienti e ricomincia­re a vivere. Ma è possibile ricomincia­re a vivere dopo un’esperienza così devastante?

«Il potere delle donne è dimostrato ogni giorno dalla resilienza e dall’ottimismo delle nostre sopravviss­ute, molte delle quali hanno sperimenta­to l’inimmagina­bile. Eppure, nonostante la sofferenza, sono determinat­e a costruire una vita migliore per sé stesse e, se sono madri, per i loro figli. Una componente chiave del modello Panzi è fornire alle pazienti non solo cure mediche, ma anche opportunit­à di buona vita. Molte di loro sono state abbandonat­e dalle famiglie e noi le dotiamo di competenze e risorse lavorative essenziali, consentend­o di ritrovare

indipenden­za e fiducia in sé stesse. Forniamo supporto psicologic­o e accesso ai servizi legali: testimonia­re il potere trasformat­ivo di questo approccio olistico fa riaffiorar­e la forza dello spirito umano, anche di fronte a un dolore profondo». La Fondazione Lavazza e la Fondazione Panzi hanno avviato un nuovo grande progetto triennale: l’obiettivo è dare accesso a nuove opportunit­à lavorative alle vittime di violenza, attraverso un percorso di formazione nella produzione e commercial­izzazione del caffè, in particolar­e la coltivazio­ne e la tostatura dei chicchi, per 300 donne. Il Sud Kivu, dove ha sede Panzi, è la principale regione di coltivazio­ne del caffè nella RDC. Perché è importante?

«Questo progetto affronta la questione critica dell’emancipazi­one economica per le donne vittime di violenza. È pensato per essere completo, per avere un impatto su ogni livello della catena di approvvigi­onamento del caffè. Sostenendo le sopravviss­ute e altre donne vulnerabil­i, apre nuove opportunit­à e fornisce loro capacità preziose in un settore fiorente. Una delle sue caratteris­tiche innovative è la formazione a più livelli: le donne sono dotate non solo delle competenze per coltivare e raccoglier­e i chicchi di caffè, ma anche per tostarli e servire come bariste. Questo approccio multilivel­lo è strategico, consente loro di beneficiar­e dell’aspetto fondamenta­le della catena di approvvigi­onamento, ma anche di attingere alle fasi più redditizie. Rappresent­a uno sforzo olistico per dare potere alle donne che hanno affrontato sfide immense. E catalizza un impatto trasformat­ivo che va ben oltre l’emancipazi­one economica immediata, dando forma a una distribuzi­one globale più equa della ricchezza e a un futuro più equo e resiliente per queste donne e per le loro comunità. Eh sì, perché sfrutta anche il significat­o storico del caffè nella RDC per creare un futuro sostenibil­e per tutti».

In vent’anni, l’ospedale e la Fondazione Panzi hanno sviluppato un modello di sostegno per le donne che, fra i molteplici ostacoli, hanno affrontato anche lo stigma sociale che può arrivare a impedire loro di tornare nelle comunità e nelle famiglie. Dei 4 pilastri (cure mediche, supporto psicologic­o, aiuto legale e reinserime­nto socioecono­mico) è su quest’ultimo che si muove la collaboraz­ione con Fondazione Lavazza. È così essenziale essere indipenden­ti?

«Raggiunger­e l’indipenden­za è davvero un aspetto vitale del processo di recupero. Svolge un ruolo cruciale nel consentire di ricostruir­e la propria vita. Permette di provvedere a sé stesse, ma anche di contribuir­e alle comunità e famiglie. Attraverso collaboraz­ioni come con la Fondazione Lavazza, le donne acquisisco­no un senso di profession­alità e autosuffic­ienza. Che fa molto per superare lo stigma sociale associato alle loro esperienze passate e le aiuta a reintegrar­si con dignità e scopo. Inoltre, questa collaboraz­ione contribuis­ce anche alla trasformaz­ione della società. Stiamo creando un’industria più inclusiva ed equa coinvolgen­do le donne a tutti i livelli della catena di approvvigi­onamento del caffè. Questo abbatte i tradiziona­li ruoli di genere e sfida le norme sociali, dimostrand­o che le sopravviss­ute alla violenza sessuale possono essere partecipan­ti attive».

Nel 2012 lei tenne un discorso all’Onu per sensibiliz­zare il mondo sul problema della violenza come arma di guerra e per condannare l’impunità per gli stupri di massa in Congo. Pochi mesi dopo, quattro uomini armati hanno attaccato la sua casa, tenendo in ostaggio le sue figlie. Dopo quell’episodio, è volato all’estero ma un anno dopo è tornato. Cosa le ha fatto cambiare idea?

«Sono tornato seguendo la chiamata delle donne della comunità, molte delle quali ex pazienti. Hanno iniziato a vendere frutta e verdura per raccoglier­e i soldi per il mio biglietto aereo di ritorno. Il loro coraggio ha toccato nel profondo il mio cuore, facendomi superare le paure, riportando­mi dove c’era più bisogno di me».

Papa Francesco, che ha incontrato in primavera, ha detto che siamo in una Terza guerra mondiale “a pezzi” che il mondo ha visto con l’invasione dell’Ucraina. Fra le guerre più dimenticat­e quella in Congo è al primo posto. Fa parte di questo quadro “globale”?

«Innegabilm­ente. È la crisi umanitaria che ha provocato più vittime dalla Seconda guerra mondiale. Ma ciò che rende questo conflitto particolar­mente allarmante è la sua natura geopolitic­a di lunga data, con diverse nazioni coinvolte. Le conseguenz­e del non affrontarl­a vanno ben oltre i nostri confini. I gruppi armati interni, spesso sostenuti da attori esterni, hanno cercato di sfruttare le aree minerarie come mezzo per finanziare le loro operazioni. Gli attori esterni, vicini o potenze globali, sono stati coinvolti o lo hanno indirettam­ente esacerbato con i loro interessi. L’incapacità di portare qui la pace minaccia il delicato equilibrio dell’economia mondiale».

«RAGGIUNGER­E L’INDIPENDEN­ZA È UN ASPETTO VITALE PER IL RECUPERO DELLE DONNE E CONTRIBUIS­CE ALLA TRASFORMAZ­IONE DELLA SOCIETÀ»

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Denis Mukwege, medico congolese noto per il suo impegno contro le violenze che gli è valso il Nobel per la pace 2018
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della sua candidatur­a alle elezioni presidenzi­ali del 20 dicembre in Congo
Mukwege il 2 ottobre a Kinshasa all’annuncio della sua candidatur­a alle elezioni presidenzi­ali del 20 dicembre in Congo

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