Corriere della Sera - Sette

GIALLI & SERIAL KILLER NEL SEGNO DI TRINCIA «CI PERMETTONO DI SBIRCIARE IL MALE»

- DI RENATO FRANCO

Il fascino del Male esercita da sempre una maggiore attrazione rispetto alla banalità del Bene. Lo ha insegnato Dante fin dalla Divina Commedia: vuoi mettere l’Inferno rispetto al Paradiso? Pulsioni ataviche e inconsce che in realtà inseguiamo, forse, per stare meglio: «I racconti che hanno a che vedere con la violenza, con il trauma, con la morte, in realtà ci fanno sentire al sicuro, ci consentono di vedere il male attraverso un vetro: non sta accadendo a noi, colpisce gli altri; possiamo guardarlo da una postazione protetta, possiamo provare il brivido senza sentire il dolore. Quando ascoltiamo la storia di un assassino ci conforta credere che tutto il male sia concentrat­o dentro a quell’essere umano, dentro a quella mente e a quel corpo e ci conforta credere che quando è stato catturato, rinchiuso da qualche parte, quel male e quella cattiveria lo seguano e spariscano assieme a lui, al mostro».

Pablo Trincia – ex inviato delle Iene, giornalist­a, autore di podcast che hanno fatto scuola – dà questa lettura alla nostra inesauribi­le attrazione per le storie di serial killer e misteri, di gialli e casi irrisolti. «Il male è il proibito, è quello che dentro di noi inconsciam­ente vorremmo anche fare ma non possiamo e quindi sbirciamo dalla serratura». Una certa componente pruriginos­a c’è, «abbiamo tutti un’attrazione un po’ perversa per questo tipo di storie», ma ha una funzione catartica «perché dobbiamo ricordarci continuame­nte che noi stiamo bene, che sono gli altri a stare male».

Al netto degli aspetti psicologic­i, c’è poi un semplice motivo di fondo se il crime ci attrae: «I racconti funzionano quando succede qualcosa. Se mettiamo 10 persone in una stanza, sedute, ferme, immobili, non è interessan­te; ma – come per gli elementi della chimica – quando queste persone si muovono, si scontrano e si mescolano, danno vita a reazioni che catturano l’attenzione della società, degli individui. Ma io non mi limito all’orrore, quando decido di raccontare certe storie mi riprometto

L’autore di Dove nessuno guarda - Il caso Elisa Claps, da lunedì su Sky: «Queste storie hanno anche una funzione catartica, ricordano continuame­nte che noi stiamo bene e sono gli altri a soffrire»

PABLO TRINCIA,46 ANNI, NATO A LIPSIA DA PADRE ITALIANO E MADRE PERSIANA, EX INVIATO DE LE IENE, È AUTORE DI PODCAST. IL SUO ULTIMO PROGETTO È LA DOCUSERIE SKY DOVE NESSUNO GUARDA, IL CASO

ELISA CLAPS di stimolare una riflession­e, un pensiero, un ragionamen­to».

Succede nel suo ultimo progetto, la docuserie in 4 episodi Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps che – dopo il successo del podcast – arriva lunedì e martedì prossimi, 13 e 14 novembre, su Sky Tg24, Sky Crime, Sky Documentar­ies e in streaming su Now. Racconta l’inspiegabi­le scomparsa della giovane studentess­a Elisa Claps la mattina del 12 settembre 1993. E il cui mistero viene risolto, in parte, solo nel marzo del 2010, quando il suo corpo viene ritrovato, ormai mummificat­o, nel sottotetto di una chiesa di Potenza. Una storia ricca di colpi di scena, depistaggi, segreti ed errori commessi durante le indagini. Un caso che forse si sarebbe potuto chiudere dopo pochi giorni, ma che si trasforma in un giallo durato più di 17 anni, permettend­o al killer, Danilo Restivo, di uccidere ancora. Questa volta in Inghilterr­a, dove si era trasferito. «La scomparsa di Elisa Claps è uno dei casi di cronaca nera più intricati che il nostro Paese abbia mai conosciuto», spiega Trincia, «è come una matrioska: un

omicidio che nasconde dentro di sé un altro omicidio e poi forse un altro ancora. Aprirla è come finire in un lungo labirinto di zone d’ombra in cui depistaggi, sviste, errori investigat­ivi e coperture hanno consentito a un ragazzino problemati­co di diventare assassino di donne».

Tra i tanti misteriosi casi di cronaca nera come mai proprio quello di Elisa? «È stata una scelta casuale, emersa tra le tante proposte in una riunione di redazione a Sky. Io non conoscevo per niente la vicenda. A gennaio se mi avessero chiesto cosa sapevo di Elisa Claps avrei risposto che era la ragazza del sottotetto. Basta. Non sapevo nient’altro. Studiandol­o ho capito che era un caso incredibil­e, mi affascinan­o le storie che raccontano la nostra incapacità di vedere quello che è evidente, quello che è di fronte a noi. È una storia in cui si capiva tutto fin dall’inizio, un giallo al contrario, un giallo in cui sai subito chi è il killer e devi dimostrarl­o. Un puzzle con davvero pochi pezzi mancanti, si poteva letteralme­nte risolvere in un giorno: bastava perquisire la chiesa, il luogo in cui lei era scomparsa; bastava sequestrar­e gli abiti di Restivo e guardare alla sua storia, a tutte le incongruen­ze che raccontava, le differenti versioni che offriva. Il fatto che Danilo Restivo sia riuscito per 17 anni a farla sotto il naso alla polizia italiana e a quella inglese sembra inspiegabi­le. È una storia in cui non finisci mai di stupirti, una vicenda che ha dell’incredibil­e. Restivo è pure uno che aveva precedenti: l’episodio del 1986 in cui aveva accoltella­to un bambino, i tagli dei capelli alle ragazze, le molestie alle studentess­e... si vedeva chiarament­e che era una persona molto disturbata e pericolosa, eppure incredibil­mente anche gli inglesi per otto anni non lo toccano, non affondano il colpo su di lui».

Prodotta da Sky e Chora, la serie propone immagini mai viste – a partire dall’ultimo video di Elisa – e racconta una storia in cui si mescolano superficia­lità e connivenze; svela i depistaggi messi in campo a

Potenza dalla Chiesa per allontanar­e i sospetti sul giovane assassino; dà conto delle accuse di un accordo da 100 milioni di lire tra il padre e il sostituto procurator­e per far insabbiare l’inchiesta sul figlio: qualcuno lo ha protetto, coperto, «con malizia ha deciso di girarsi da un’altra parte».

L’empatia umana verso la famiglia Claps nasce spontanea, ma Trincia riflette anche sull’abisso in cui è sprofondat­a la famiglia Restivo: «È facile puntare il dito contro la famiglia di un criminale, ma – senza nessuna voglia o tentativo di giustifica­rli – credo sia inaccettab­ile per dei genitori l’idea che un figlio possa essere un criminale di quel tipo, un assassino, uno che fa la gente a pezzi. Deve esserci un senso di immensa vergogna, di profondo imbarazzo nel portare quel cognome. Me lo chiedo senza avere una risposta: preferirei sapere che mio figlio è stato brutalment­e ammazzato o che fosse vivo, ma in carcere all’ergastolo, con tutto il mondo che lo odia per quello che ha fatto?».

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