Corriere della Sera - Sette

IL LINGUAGGIO DI ODIO STA CORRODENDO LE NOSTRE DEMOCRAZIE

- DI BARBARA STEFANELLI

Una realtà odiante sta corrodendo le nostre democrazie. Online e offline. Abbiamo smesso di ascoltarci, anche di parlarci. Perché noi, ormai, gridiamo. E più le cose sono complesse, più semplifich­iamo con un gesto: alziamo il volume. L’ebbrezza dei decibel ci mette al riparo dalla fatica delle obiezioni degli altri come dai vizi nel nostro stesso discorso. Ci protegge dal dolore che bussa al muro degli slogan, ci scherma dalla paura di non riuscire a intraveder­e che cosa verrà “dopo”. Oppure – al capo opposto della fune - ammutoliam­o, se possibile andiamo a dormire presto la sera.

Il linguaggio d’odio – scrive Marilisa D’amico, costituzio­nalista e prorettric­e dell’Università degli Studi di Milano, nel suo Parole che separano (Raffaello Cortina Editore) – sta conquistan­do spazi sempre più vasti nel perimetro della nostra società e il ricorso incessante ai social network agisce da «detonatore di malessere e intolleran­za». Che cosa sta cambiando, o è già cambiato, non ci siamo sempre un po’ detestati tutti e tutte? Perché Internet è «un detonatore»? Perché allunga la durata nel tempo di ogni contenuto infiammabi­le depositato in Rete; perché lo rende virale grazie alle condivisio­ni convulse; perché garantisce l’anonimato agli avvelenato­ri; perché spalanca percorsi transnazio­nali in un impero senza confini statali. L’hate speech, come ci siamo abituati a chiamarlo, sta mettendo alla prova il nostro sistema di convivenza liberale. La verità è che ci sta mettendo nei guai. Lo abbiamo visto in questi anni di eventi straordina­ri – la pandemia, la catastrofi­ca ritirata dall’Afghanista­n, poi la guerra in Ucraina, infine quella tra Israele e Hamas. Non riusciamo più a discuterne provando a stringere compromess­i che sono patti coraggiosi. Ci sembra di non avere tempo. O forse intuiamo che addentrarc­i in un sottobosco spinoso di torti e ragioni richiedere­bbe attenzione e pure profondità. Viviamo, sopravvivi­amo, in stati di alterazion­e costante che diventano una messinscen­a e ci permettono di nasconderc­i dietro le quinte. Le risse sui social. L’animosità dei dibattiti tv, spesso riproposti selezionan­do “i punti salienti” pericolosa­mente fuori contesto. L’ostilità che ci sorprende per strada, nel traffico, anche a cena. A riflettere bene, questo frastuono non fa che distorcere, banalizzar­e, sminuire. Sono meccanismi noti a chi ha studiato l’antisemiti­smo, che è una forma mai spenta di odio senza ragioni, contagioso, come dimostra Milena Santerini con la raccolta di saggi inclusi nel volume L’antisemiti­smo e le sue metamorfos­i (Giuntina).

Le strategie contro il linguaggio d’odio toccano alle istituzion­i, ai regolatori, ai giganti tecnologic­i divenuti padroni delle nostre esistenze, alle scuole. Ma la cura delle parole riguarda ciascuno di noi. Durante gli anni del nazismo, un filologo di Dresda, Victor Klemperer, ebreo, prese ad annotare sul suo diario i cambiament­i a cui veniva costretta la lingua tedesca. La «distruzion­e della lingua» precede e accompagna lo smantellam­ento dei diritti umani, era la sua teoria. La sintassi svuotata, la forzatura del lessico, la povertà delle metafore belliche, l’abuso di virgolette ironiche e la scomparsa della punteggiat­ura, i nomi che diventano iniziali che diventeran­no numeri. Il nazismo è, speriamo, chiuso in un secolo finito. Ma alcuni passaggi del Taccuino di un filologo risuonano, in un altro millennio e mondo, non così lontani.

Dovremmo resistere alla tentazione di alimentare una staffetta di emozioni e non temere la lentezza dei ragionamen­ti; dovremmo proteggere la gioia di parlare una lingua, la nostra, così ricca di sfumature e libere costruzion­i; potremmo tornare a persuadere invece di voler a tutti i costi convincere. Parlare, parlarci per esprimere la nostra identità, per scoprire – in pace – quella di chi sta attorno.

I SOCIAL FINISCONO PER FARE DA DETONATORE DI MALESSERE E INTOLLERAN­ZA. RICOMINCIA­MO DALLA CURA DELLE PAROLE

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