IL LINGUAGGIO DI ODIO STA CORRODENDO LE NOSTRE DEMOCRAZIE
Una realtà odiante sta corrodendo le nostre democrazie. Online e offline. Abbiamo smesso di ascoltarci, anche di parlarci. Perché noi, ormai, gridiamo. E più le cose sono complesse, più semplifichiamo con un gesto: alziamo il volume. L’ebbrezza dei decibel ci mette al riparo dalla fatica delle obiezioni degli altri come dai vizi nel nostro stesso discorso. Ci protegge dal dolore che bussa al muro degli slogan, ci scherma dalla paura di non riuscire a intravedere che cosa verrà “dopo”. Oppure – al capo opposto della fune - ammutoliamo, se possibile andiamo a dormire presto la sera.
Il linguaggio d’odio – scrive Marilisa D’amico, costituzionalista e prorettrice dell’Università degli Studi di Milano, nel suo Parole che separano (Raffaello Cortina Editore) – sta conquistando spazi sempre più vasti nel perimetro della nostra società e il ricorso incessante ai social network agisce da «detonatore di malessere e intolleranza». Che cosa sta cambiando, o è già cambiato, non ci siamo sempre un po’ detestati tutti e tutte? Perché Internet è «un detonatore»? Perché allunga la durata nel tempo di ogni contenuto infiammabile depositato in Rete; perché lo rende virale grazie alle condivisioni convulse; perché garantisce l’anonimato agli avvelenatori; perché spalanca percorsi transnazionali in un impero senza confini statali. L’hate speech, come ci siamo abituati a chiamarlo, sta mettendo alla prova il nostro sistema di convivenza liberale. La verità è che ci sta mettendo nei guai. Lo abbiamo visto in questi anni di eventi straordinari – la pandemia, la catastrofica ritirata dall’Afghanistan, poi la guerra in Ucraina, infine quella tra Israele e Hamas. Non riusciamo più a discuterne provando a stringere compromessi che sono patti coraggiosi. Ci sembra di non avere tempo. O forse intuiamo che addentrarci in un sottobosco spinoso di torti e ragioni richiederebbe attenzione e pure profondità. Viviamo, sopravviviamo, in stati di alterazione costante che diventano una messinscena e ci permettono di nasconderci dietro le quinte. Le risse sui social. L’animosità dei dibattiti tv, spesso riproposti selezionando “i punti salienti” pericolosamente fuori contesto. L’ostilità che ci sorprende per strada, nel traffico, anche a cena. A riflettere bene, questo frastuono non fa che distorcere, banalizzare, sminuire. Sono meccanismi noti a chi ha studiato l’antisemitismo, che è una forma mai spenta di odio senza ragioni, contagioso, come dimostra Milena Santerini con la raccolta di saggi inclusi nel volume L’antisemitismo e le sue metamorfosi (Giuntina).
Le strategie contro il linguaggio d’odio toccano alle istituzioni, ai regolatori, ai giganti tecnologici divenuti padroni delle nostre esistenze, alle scuole. Ma la cura delle parole riguarda ciascuno di noi. Durante gli anni del nazismo, un filologo di Dresda, Victor Klemperer, ebreo, prese ad annotare sul suo diario i cambiamenti a cui veniva costretta la lingua tedesca. La «distruzione della lingua» precede e accompagna lo smantellamento dei diritti umani, era la sua teoria. La sintassi svuotata, la forzatura del lessico, la povertà delle metafore belliche, l’abuso di virgolette ironiche e la scomparsa della punteggiatura, i nomi che diventano iniziali che diventeranno numeri. Il nazismo è, speriamo, chiuso in un secolo finito. Ma alcuni passaggi del Taccuino di un filologo risuonano, in un altro millennio e mondo, non così lontani.
Dovremmo resistere alla tentazione di alimentare una staffetta di emozioni e non temere la lentezza dei ragionamenti; dovremmo proteggere la gioia di parlare una lingua, la nostra, così ricca di sfumature e libere costruzioni; potremmo tornare a persuadere invece di voler a tutti i costi convincere. Parlare, parlarci per esprimere la nostra identità, per scoprire – in pace – quella di chi sta attorno.
I SOCIAL FINISCONO PER FARE DA DETONATORE DI MALESSERE E INTOLLERANZA. RICOMINCIAMO DALLA CURA DELLE PAROLE