Alla fine di Malèna di Tornatore, gli occhi traboccano di mare, di Sicilia. E di Monica
Impossibile non rendere omaggio alla sapienza cinematografica del regista, uno dei pochi oggi che sanno dare forza e respiro alle immagini. Esplorando il corpo drappeggiato o nudo della statuaria Bellucci, vuole rifarsi allo Josef von Sternberg che contem
Parlando per metafora, Malèna è un film da vedere dall’inizio alla fine con il cappello in mano; e questo per due motivi, l’uno positivo e l’altro meno. Cominciamo dal primo: impossibile non rendere omaggio alla sapienza cinematografica di Giuseppe Tornatore, uno dei pochi registi contemporanei che sanno dare forza e respiro alle immagini, esaltare personaggi e sfondi, scandire le sequenze sui ritmi della musica (di un ispirato Ennio Morricone).
Il secondo motivo di tenere il cappello in mano, più banale, è quello di non doverselo levare continuamente per salutare al passaggio le vecchie conoscenze transitanti sullo schermo.
A cominciare da Sternberg, nella contemplazione di Marlene Dietrich che insegnò come si trasforma una femmina in un’icona; e Tornatore ne segue le orme esplorando il corpo drappeggiato o nudo della statuaria Monica Bellucci, con qualche licenza impoetica.
Infatti il maestro tedesco per sottolineare il fascino di Lola Lola non avrebbe mai sottolineato il gonfiarsi della patta di un ammiratore. Il che ci conduce al tema ricorrente delle masturbazioni dell’adolescente protagonista Giuseppe Sulfaro sulle molle troppo cigolanti del letto di casa o per opera di una compiacente tardona nel buio del cinema. E qui il modello evocato è Fellini, dominante anche nell’assurdamente angosciosa sequenza del casino.
Ma gli incontri si moltplicano: dal Lattuada di «Gli italiani si voltano» al Blasetti di «Processo a Frine», dal Germi di «Sedotta e abbandonata» al Carmelo Bene delle Madonne incarnate e perfino al Tinto Brass delle orge pornonaziste.
Per non parlare del Danny Kaye di «Sogni proibiti», che ha ispirato le scene in cui il ragazzino si immagina eroe di film come «La cena delle beffe», «Ombre rosse», «Tarzan» e via esagerando. Spiace, pert dirla tutto, che un cineasta superdotato qual è Tornatore si abbandoni a tante scorrerie nei territori altrui quando potrebbe accontentarsi di essere se stesso.
Tratto da un soggetto di Luciano Vincenzoni, l’arco della vicenda parte dal discorso del Duce del 10 giugno ’40 e arriva alle amarezze del dopoguerra. Insondabile oggetto del desiderio maschile, Malèna passa attraverso sgradevoli prove esistenziali per approdare addirittura a un mezzo linciaggio e a un finale di muta rassegnazione; e tuttavia il giovane ammiratore deluso la ricorderà sempre come il sole della sua vita. Il film inizia in chiave di poemetto stilnovista per farsi volta a volta grottesco, iperrealista, trucido, canzonettistico. Nel suo vario atteggiarsi sconcerta, ma questo per qualcuno è il suo bello.
Alla fine ti ritrovi, sull’eco di «Ma l’amore no», gli occhi traboccanti di mare, di Sicilia e di Monica Bellucci.