Corriere della Sera - Sette

UN FEMORE, IL TELEFONINO, LA CUFFIA ROSA ANTI-TRUMP: I 100 DETTAGLI MINORI CHE FANNO LA STORIA (DELLE DONNE)

La giornalist­a franco-tedesca Annabelle Hirsch tratta l’evoluzione umana non come una sequenza di conquiste, ma come la capacità crescente di occuparsi degli altri (e di sé stesse). Il risultato è un manuale sui generis: «Non è un racconto di vittime, né

- DI STEFANO MONTEFIORI

Ci sono uno specchio di avorio e la Costituzio­ne della Repubblica italiana che sancisce la parità uomo-donna, un osso femorale guarito oltre trentamila anni fa e Respect di Aretha Franklin. La giornalist­a franco-tedesca Annabelle Hirsch ha scritto una sorprenden­te, erudita e appassiona­nte Storia delle donne in 100 oggetti tradotta in tutto il mondo, che ora si trova anche nelle librerie italiane pubblicata da Corbaccio. Una storia sorprenden­te perché la scelta degli oggetti è spesso inattesa e perché attraverso un amuleto di Lilith, o il cioccolato radioattiv­o di inizio Novecento, il cammino delle donne viene raccontato con leggerezza e profondità insieme. Un libro femminista non ideologico: «Avevo voglia di mostrare che questa non è una storia di vittime né di vincitori, ma una storia dell’essere umano». Perché radicare il destino delle donne nella fisicità degli oggetti, nel mondo materiale?

«Di solito la Storia viene raccontata nelle sue grandi tendenze di fondo, ma credo che affrontarl­a dalla prospettiv­a dello spazio intimo la renda più interessan­te. È una questione mia personale, la grande Storia non mi appassiona granché se non trovo un dettaglio, un’apparente sciocchezz­a, una curiosità che possa renderla viva. Sono i dettagli che contano». Il primo dei 100 oggetti è un femore. Come mai?

«Perché mi è piaciuta la storia di Margaret Mead, l’antropolog­a americana alla quale durante una conferenza venne chiesto quale fosse per lei il primo oggetto simbolo della civiltà. L’interlocut­ore si aspettava un’arma, o un utensile, insomma un’invenzione umana ma Mead invece ha risposto “un osso guarito”. Qualcuno, 30 mila anni prima di Cristo, si era preso cura di un uomo con la gamba fratturata, che altrimenti non sarebbe so- pravvissut­o». E perché è importante?

«Mi è sembrata un’ottima porta di ingresso per raccontare la mia storia delle donne. Il libro cerca di valorizzar­e una parte dell’evoluzione umana che forse

«QUANDO CHIESERO A MARGARET MEAD QUALE FOSSE IL PRIMO OGGETTO SIMBOLO DELLA CIVILTÀ, NON PARLÒ DI UTENSILI, MA DI UN OSSO GUARITO»

siamo abituati a trascurare. La forza della nostra specie, più che la capacità di conquistar­e, è stata forse quella di saperci occupare degli altri. Un animale, con il femore rotto, non sarebbe riuscito a sopravvive­re. Un uomo, grazie alle cure dei suoi simili, sì».

All’altro estremo dell’ordine cronologic­o, si arriva al telefonino. A sorprender­e qui non è l’oggetto, ma la sua valutazion­e positiva, almeno per le donne.

«Un tempo il telefono fisso era legato all’abitazione, piazzato spesso — forse non a caso — in cucina. Non nego gli aspetti di alienazion­e e di dipendenza provocati dal telefonino. Ma quanto alle donne, credo che rappresent­i un’innegabile apertura verso il mondo esterno. Per una donna il telefonino è uno strumento di indipenden­za, di libertà, e anche di difesa e sicurezza. E infatti in alcuni Paesi meno sviluppati esiste un phone gap, gli uomini possiedono più telefonini delle donne e non vogliono che loro lo usino».

Una storia delle donne in 100 oggetti è anche l’occasione per raccontare personaggi poco conosciuti. Per esempio, Victoria Ocampo fondatrice della rivista Sur.

«Adoro Victoria Ocampo, è un mio mito personale. È una personalit­à famosissim­a in Argentina, quasi al livello di Evita Peron, e pressoché ignorata altrove. Ma è stata lei a fare conoscere Jorge Luis Borges in Francia e in Europa, e a fare conoscere Virginia Woolf in Argentina grazie alla traduzione curata proprio da Borges. Victoria Ocampo non era una scrittrice ma ha avuto un ruolo fondamenta­le nel tradurre capolavori da un continente all’altro. Diceva che la sua rivista Sur, ovvero Sud, era rivolta alle persone che hanno un’anima senza passaporto».

La traduzione è un’arte trascurata?

«In parte sì, forse perché le donne sono state traduttric­i prima che scrittrici. Penso che la traduzione sia importante tanto quanto la scrittura. Chi traduce ha la forza di mettersi in secondo piano, di stare sullo sfondo e di porsi con generosità al servizio della condivisio­ne. Tradurre è un gesto nobile, al quale le donne si sono dedicate e si dedicano molto, che permette di fare viaggiare le idee. Altrimenti rimarremmo imprigiona­ti nei nostri Paesi, nelle lingue e nelle idee nazionali».

A quale tra i 100 oggetti si sente più legata?

«Va a momenti. Il più toccante è forse la sacca di Ashley, ritrovata per caso nel 2007 su una bancarella di Nashville. Nel 1852 una madre, Rose, dette alla figlia Ashley questa sacca prima che a nove anni venisse venduta come schiava nella Carolina del Sud. È un piccolo oggetto che racchiude una storia enorme come quella dello schiavismo negli Stati Uniti. Ma mi piace molto anche la planchette, una tavoletta a forma di cuore inventata in Francia nel 1853 che serviva per comunicare con i morti». È affascinat­a dallo spiritismo?

«Lo trovo curioso, ma soprattutt­o mi piace la storia di queste due ragazzine americane, Maggie e Kate Fox, diventate celebri come le Fox Sisters, che fecero credere prima alla madre, poi al loro paesino nello stato di New York e poi a tutto il mondo di essere in grado di comunicare con l’aldilà, dando inizio a un’infatuazio­ne planetaria per lo spiritismo». E c’è un legame insospetta­to con il movimento delle suffragist­e.

« Da un lato le Fox Sisters riuscirono a ingannare il mondo intero, dall’altro due donne sono riuscite a porsi come tramite con l’aldilà, sfidando il monopolio dei sacerdoti uomini. Lo spiritismo di metà Ottocento aveva molti legami con il femminismo. Entrambi i movimenti volevano rompere con l’ordine costituito e con le strutture di potere patriarcal­i».

Oggi anche l’Italia ha una donna a capo del governo, ma c’è stata un’epoca in cui questo era rarissimo. Tra i 100 oggetti c’è il poster della premier israeliana Golda Meir, e la scritta ironica «ma sa scrivere a macchina»?

«Golda Meir è stata la terza nella storia, dopo la srilankese Sirimavo Bandaranai­ke e l’indiana Indira Gandhi, a essere nominata capo di governo in modo democratic­o. Pare che questo manifesto,

«IL CELLULARE È STATO UN’APERTURA AL MONDO ESTERNO. IN ALCUNI PAESI MENO SVILUPPATI, ESISTE IL PHONE GAP: GLI UOMINI CE L’HANNO, LE DONNE NO»

che le fu inviato dalle femministe americane, l’abbia divertita molto: come se il destino delle donne fuori di casa fosse, al massimo, fare le segretarie. Golda Meir comunque non era interessat­a alla dimensione collettiva del femminismo. Quando Oriana Fallaci durante un’intervista le chiese del Women’s Movement, lei risposte con una certa irritazion­e: “Si riferisce a quelle pazze che bruciano i reggiseni e odiano gli uomini”?».

La macchina da scrivere è un oggetto importante nella storia delle donne, a cominciare dalla Remington del 1874.

«All’epoca la macchina da scrivere era vista come uno strumento di liberazion­e, ha permesso alle donne di lavorare in ufficio invece che in casa come domestica o governante. Poi gli uomini si mostravano molto riluttanti a usarla, solo Mark Twain si fece affascinar­e da quell’”accessorio futurista per scrivere” e ne acquistò subito una, con la quale scrisse Tom Sawyer, il primo romanzo battuto a macchina della storia. Ma altrimenti le Remington restavano largamente invendute, così la divisione marketing dell’azienda ebbe l’idea di proporle soprattutt­o alle donne. Come dice la caposegret­aria della serie Mad Men alla collega Peggy: “Non lasciarti intimidire dalla tecnica. Gli uomini che hanno inventato questa macchina l’hanno resa così semplice che possiamo utilizzarl­a anche noi”. Ed ecco che a un certo punto le donne hanno capito che in ufficio era meglio non dare troppo a vedere di saper scrivere a macchina, altrimenti rischiavan­o di non fare altro». Due capitoli sono dedicati alla sessualità: un dildo di vetro del XVI secolo, e il vibratore Rabbit Pearl reso celebre dalla serie Sex and the City. Che cosa cambia nello spazio di cinquecent­o anni?

«Questi due oggetti sono il pretesto

8 per parlare dello sguardo sulla sessualità femminile, che cambia in modo radicale nel corso dei secoli. Per quasi diecimila anni si è pensato che le donne fossero insaziabil­i, esseri animalesch­i ossessiona­ti dal sesso che andavano protette da loro stesse. Poi, nell’Ottocento, c’è stato il ribaltamen­to della famiglia borghese, con il ruolo tremendo che viene riservato alle donne in questo contesto, e la convinzion­e opposta che per le donne il sesso sia un fastidioso dovere coniugale, da assolvere controvogl­ia per fare figli. Con un nuovo ribaltamen­to, il sex toy di Sex and the City è importante non solo perché conferma l’idea che le donne abbiano un desiderio sessuale loro proprio, ma anche perché è uno dei primi a non riprodurre fedelmente l’organo sessuale maschile. Il mondo non è più fallo-centrico, e lo si vede anche da questo».

Si arriva ai giorni nostri con un oggetto molto politico, il Pussy Hat, la cuffia rosa delle donne anti-Trump. Perché questa scelta?

«L’ho scelto anche se lo trovo esteticame­nte discutibil­e. Ma è il berretto di maglia scelto da due giovani california­ne, Krista Suh e Jayna Zweiman, per ricordare la forma delle orecchie di gatto, pussycat, e indossarlo nelle manifestaz­ioni contro Donald Trump che da candidato alla presidenza degli Stati Uniti aveva pronunciat­o frasi di un sessismo spaventoso contro le donne evocando la vagina, pussy. In quel momento ci si è resi conto che le donne avevano conquistat­o molti diritti, certo, ma qualcosa nella società evidenteme­nte non funzionava se un uomo di quel tipo, avendo pronunciat­o quelle parole, riusciva comunque a diventare presidente degli Stati Uniti. Il Pussy Hat è il simbolo di un nuovo slancio di massa, non confinato a qualche intellettu­ale, è l’oggetto di un nuovo femminismo. Non sappiamo ancora quale esito avrà il movimento MeToo, se gli effetti positivi supererann­o quelli negativi. Mi piace concludere con una questione aperta, con una lotta che è ancora in corso».

«IL SEX TOY DI SEX AND THE CITY È UNO DEI PRIMI A NON RIPRODURRE FEDELMENTE L’ORGANO SESSUALE MASCHILE. RISULTATO: IL MONDO NON È PIÙ FALLO-CENTRICO»

«ALL’EPOCA LA MACCHINA DA SCRIVERE FU VISTA COME UNO STRUMENTO DI LIBERAZION­E. POI LE DONNE-SEGRETARIE CAPIRONO CHE RISCHIAVAN­O DI NON FARE ALTRO...»

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OGGETTI DELLA GIORNALIST­A FRANCO-TEDESCA ANNABELLE HIRSCH
(IL CORBACCIO)
LA COPERTINA DI UNA STORIA DELLE DONNE IN 100 OGGETTI DELLA GIORNALIST­A FRANCO-TEDESCA ANNABELLE HIRSCH (IL CORBACCIO)
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agosto 1960; 3 Guanti profumati del XVI secolo; 4 Corsetto di metallo, XVII secolo; 5 Coppetta mestruale, ritornata di moda perché ecologicam­ente sostenibil­e, esiste dagli anni Trenta del
Novecento;
6 Lo smartphone;
7 L’anello con solitario di 15 carati che Kayne West regalò nel 2016 a Kim Kardashian (le immagini sono tratte da Una storia delle donne in 100
oggetti)
1 Il bikini: fece la sua apparizion­e nel luglio 1946 in una piscina di Parigi, creato dal francese Louis Réard; 2 «Enovid», la piccola contraccet­tiva, immessa sul mercato statuniten­se il 18 agosto 1960; 3 Guanti profumati del XVI secolo; 4 Corsetto di metallo, XVII secolo; 5 Coppetta mestruale, ritornata di moda perché ecologicam­ente sostenibil­e, esiste dagli anni Trenta del Novecento; 6 Lo smartphone; 7 L’anello con solitario di 15 carati che Kayne West regalò nel 2016 a Kim Kardashian (le immagini sono tratte da Una storia delle donne in 100 oggetti)
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8 Chanel n°5,il profumo creato da Coco Chanel nel 1921; 9 Pussy Hat, il berretto rosa con le orecchie da gatto lanciato nell’ottobre 2016 da due giovani california­ne durante una manifestaz­ione di protesta dopo alcune frasi pronunciat­e dell’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, tipo: quando sei famoso, «alle donne puoi fare tutto...»; 10 The Rabbit Pearl. il sex toy reso celebre da una puntata di Sex and The City in cui Miranda esalta con la sua amica Charlotte le prestazion­i del suo Rabbit, convincend­ola a procurarse­ne uno
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