JOHN F. KENNEDY
IL PRESIDENTE DALLE FRASI IMMORTALI E I 3 COLPI DI PISTOLA CHE NE FECERO UN MITO
Come poteva un uomo che era riuscito a spargere nei suoi discorsi perle di imperitura ispirazione come «Non chiederti cosa può fare per te ma cosa tu puoi fare per il tuo Paese» o «Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili» o «Oggi siamo sulla soglia di una Nuova frontiera, la frontiera dei 60, delle speranze incompiute e dei sogni», come poteva quest’uomo che era John Fitzgerald Kennedy, non entrare nell’immaginario mondiale e restarci per sempre?
Eppure, nonostante l’indubbio fascino dell’occhio ceruleo e del capello a onde, nonostante la camminata dinoccolata (che vabbè era dovuta alle vertebre infortunate gloriosamente in guerra), nonostante il fascino delle case di famiglia, delle frequentazioni privilegiate e delle uscite in barca al largo di Boston, nonostante un Pulitzer vinto per il libro Ritratti del coraggio ( e pazienza se si è detto che era merito del fido ghostwriter Theodore Sorensen), nonostante la moglie ambiziosa e ultraglamour, nonostante la famiglia da mulino americano e la compulsività amatoria, ancora oggi ci si interroga su come mai John Fitzgerald Kennedy abbia resistito a scandali e rivelazioni, e l’immaginario non solo politico lo occupi ancora stabilmente. Il fatto è che su quel presidente giovane, bello, colto e affascinante tutto scivolava addosso, e tutto quello che di male o di malvagio gli è stato scaricato addosso negli anni si è rivoltato in positivo, come per magia. E senza che lui abbia avuto bisogno di fare mai, neppure per un secondo, la vittima.
Aveva puntato tutto sull’immagine, si dice, era stato il primo a capire quanto era diventata importante la televisione. E difatti aveva vinto il dibattito tv sul rivale Richard Nixon per pochi voti, 49,75% contro 49,55, ribaltando il risultato che avevano conseguito in radio. Poi, aveva saputo creare intorno a questa immagine un’aura di privilegio e di distinzione aiutato da quella moglie che tradiva ma forse amava, e alla quale lui sapeva inchinarsi con cinismo appassionato e risarcitorio come quando in visita in Francia si presentò al Generale De Gaulle che da lei era rimasto incantato, dicendo: «Sono l’uomo che accompagna Jackie Kennedy» (altro che le gelosie di Carlo III verso la irresistibile empatia mediatica della povera Diana!).
Lei, d’altra parte, lo ricambiò con altrettanta eleganza facendo la vedova perfetta, dopo quel giorno orribile del 22 novembre 1963 che fermò la breve corsa del Presidente, con tre colpi di pistola, per certi versi ancor oggi misteriosi. E non c’è persona di quella generazione che non sappia rispondere
BELLO, COLTO, AFFASCINANTE: TUTTO GLI SCIVOLAVA ADDOSSO E ANCHE IL MALE CHE GLI SCARICAVANO CONTRO SI RIVOLTAVA IN POSITIVO COME PER MAGIA
alla domanda su dove si trovava nel momento in cui la notizia atroce si sparse per il mondo. Jacqueline era rimasta per tutto il giorno con indosso tailleur rosa similChanel macchiato di sangue per mostrare l’orrore al mondo, poi aveva seguito il feretro come vedova velata in nero tenendo per mano i due figli: Caroline, che avrebbe compiuto sei anni a breve, e John John che stava per compierne tre. Infine aveva rilasciato la famosa intervista al giornalista Theodore White di Life nella cucina della Casa Bianca, sette giorni dopo l’assassinio, che contribuì a sigillare per sempre il mito associandolo all’epopea di Camelot, raccontando della corte di eletti che ruotava attorno al Presidente come i cavalieri alla leggendaria corte di re Artù (Camelot è appunto la leggendaria fortezza che ne era la sede) e che divenne simbolo di un momento sfolgorante della storia. Vero o falso, non importa: la vedova aveva riscattato la moglie tradita suggellando il mito.
In realtà nei 1036 giorni, tre anni scarsi, di presidenza Kennedy c’erano state molte luci e anche ombre, il periodo era complesso e trasformativo, si era arrivati sull’orlo di un conflitto nucleare dopo la crisi dei missili di Cuba: «Una presidenza incompiuta» la definì sul New York Times subito a caldo il giornalista John Reston. Arthur Schlesinger, storico influente del periodo e chiamato come assistente personale dal Presidente, ha a lungo rigettato la tesi che il suo fosse solo un trionfo di stile, che Kennedy fosse affascinante ma superficiale, e che parlasse tanto ma concludesse poco. E i nastri pubblicati a inizio Duemila relativi alla crisi di Cuba capovolgono questo pregiudizio: «Kennedy era risoluto a rimuovere i missili nucleari da Cuba, momento di massimo pericolo per l’umanità, ed era risoluto a farlo in via pacifica». Anche se era conscio di un fatto e perfino profetico, come ricordava Schlesinger: «Gli Stati Uniti non possono raddrizzare ogni torto o metter riparo ad ogni avversità, e quindi non ci può essere una soluzione americana a tutti i problemi del mondo».