Corriere della Sera - Sette

«DA QUANDO IN IRAN LE DONNE SONO IN RIVOLTA NON HO PIÙ INCUBI»

L’attrice di Teheran recita nel docufilm Picasso. Un ribelle a Parigi. «Il suo modo di sentirsi esule» dice «è identico al mio»

- DI GRETA PRIVITERA

uando le capita di dire «io, come Picasso», a Mina Kavani scappa una risata: «Non voglio paragonarm­i a un grande maestro, non mi permettere­i mai». L’attrice di Teheran ha un tratto di vita in comune con il pittore di Guernica: l’esilio in Francia. In inglese perfetto, con un leggero accento francese: «Ho accettato di recitare in Picasso. Un ribelle a Parigi perché, oltre a essere un onore poter far parte di un progetto dedicato a un artista straordina­rio come lui, il suo sentirsi esule è identico al mio».

Nelle sale il 27, 28 e 29 novembre, il docufilm della regista Simona Risi, realizzato in occasione dei 50 anni dalla morte dell’artista andaluso, è un racconto inedito e rivelatore di un giovane emigrato che ha cambiato la storia dell’arte mondiale. A guidarci in questa scoperta è Kavani, già protagonis­ta di No Bears di Jafar Panahi, vincitore del Premio Speciale della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2022, uscito da pochi mesi dal carcere di Evin, a Teheran. Kavani vive a Parigi da «quando ho scelto la libertà».

Allora lo diciamo noi: lei come Picasso. Spieghi.

«Anche a me come al pittore la Francia ha dato molto. È il Paese che mi ha fatto conoscere che cosa significhi essere davvero liberi. Io ho sempre lottato per la libertà, ma poterla esercitare è un’altra cosa. La Francia mi dà l’opportunit­à di esprimermi, ma non è dove sono nata. So che sono destinata a sentirmi per sempre una straniera, come Picasso. Quando vieni da luoghi difficili, questo vale ancora di più. Anche Picasso scappava da un regime, quello franchista».

E se tornasse a Teheran?

«Non torno da nove anni, e per ora non ci rimetterò piede visto la repression­e. Ma so che se tornassi comunque non mi sentirei a casa, non appartengo più a nessun posto. A Teheran ho imparato

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a essere libera nella mente, nel corpo, ma ho scelto di essere libera anche nello spazio, un’artista senza limitazion­i, senza censure. E una donna non può vivere in Iran se non sottostà al volere degli uomini».

Che cos’è per lei il suo Paese?

«Un’illusione. L’ho pensato così tanto in questi anni che non so più distinguer­e la realtà dall’immaginazi­one».

Quando sogna, sogna mai Teheran?

«Sì, sogno casa mia, il luogo in cui ho passato l’infanzia e l’adolescenz­a. Ho avuto moltissimi incubi ambientati in quelle stanze».

Cioè?

«Erano sempre più o meno simili. C’ero io che entravo nella vecchia casa della mia famiglia ma era vuota, piena di polvere. A volte c’erano i miei genitori seduti da qualche parte ma erano freddi, mi tenevano a distanza. Mi avvicinavo a loro ma non riuscivo ad abbracciar­li, a toccarli».

Usa il passato, non fa più incubi?

«Da quando è nato il movimento Donna Vita e Libertà ho smesso. Credo che per la prima volta ho iniziato a sentirmi molto orgogliosa di aver lasciato l’Iran. Prima dell’uccisione di Mahsa Amini ero dilaniata dai sensi di colpa. Mi chiedevo se la mia scelta di scappare in Europa e lasciare la mia famiglia non fosse una decisione egoistica. È molto doloroso. Poi ho pensato che in realtà, senza saperlo, dieci anni fai dentro di me esistevano già tracce del movimento delle ragazze della Gen Z, e sono felice di questo. Sono fiera di questi giovani che combattono contro il regime e che danno voce a tutto il popolo».

Quando se ne è andata?

«Nel 2014 ho recitato nel film Red Rose del regista Sepideh Farsi. C’erano delle scene di nudo. Quando è uscito nelle sale i giornali titolavano “Mina Kavani, la prima attrice porno d’Iran”. Sono tornata a Parigi e non sono più tornata».

In che direzione sta andando la rivoluzion­e iraniana?

«Fino a qualche mese fa ero positiva, oggi sono più triste. Temo che ci sia ancora bisogno di tempo per vivere una vita normale e scacciare per sempre il regime degli ayatollah. Vedo un mondo sempre più oscuro. Quello che sta succedendo con la guerra di Gaza è terribile e penso che avrà ripercussi­oni anche in Iran e nel resto del Pianeta. Ma io non sono una politica, qualunque cosa io dica sul futuro del mio Paese potrebbe essere sbagliata».

Torniamo a Picasso, allora. Che cosa ha scoperto su di lui girando il docufilm?

«Per esempio, non sapevo che avesse chiesto la nazionalit­à francese e che gli fosse stata rifiutata. Quando poi gliel’hanno offerta è lui che ha detto “no grazie”. Una scelta forte».

Si rivede nelle scelte forti del pittore?

«Mi rivedo nell’amore per l’arte che fa fare scelte forti, nel mio caso la recitazion­e, il cinema, che mi hanno portata qui. La scelta dell’esilio è stata guidata da questa passione. Mi piace aver capito che Picasso, anche se era spagnolo, tramite il suo talento e la sua visione della vita è riuscito a diventare un uomo internazio­nale, mantenendo la Spagna nel cuore. L’arte come lingua internazio­nale, che sogno. Allora anche io mi esercito a restare iraniana e diventare internazio­nale: non facile».

Come si esercita?

«Proteggo l’Iran che c’è in me ma non mi chiudo al resto del mondo. Appena arrivata a Parigi era tutto strano ma ho scelto di non stare solo con persone iraniane, o lavorare solo con loro. Ho sentito la necessità di integrarmi nella cultura francese».

Che cosa vuol dire essere un’artista in Iran?

«Ha a che fare con la vita e la morte. Fare arte vuol dire vivere, esprimersi. In un Paese costruito sulle catene e i divieti dare voce alla tua passione è pericoloso ed eroico. È incredibil­e, ma da sempre l’Iran è casa di centinaia di artisti incredibil­i. Al mio Paese devo anche questo: il tesoro dell’arte che mi porto dentro». Lei ha lavorato con uno dei più grandi, Jafar Panahi, detenuto per quasi sette mesi nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, e rilasciato su cauzione a febbraio. Lo sente?

«Per me è il maestro Panahi. Dopo la liberazion­e è venuto in Francia per una settimana, ma non posso definirmi una sua amica, abbiamo sempre avuto un rapporto attrice-regista, di rispetto e stima. Oggi è libero, ma non sono sicura che riuscirà a uscire facilmente dall’Iran, è molto complicata la vita di chi fa arte da noi. Un giorno sei libero, un altro sei a Evin».

Dopo Picasso dove la rivedremo?

«Ho molti lavori che stanno per uscire. Tra tutti, Leggere Lolita a Teheran, del regista israeliano Eran Riklis, girato a Roma. È un film basato sul magnifico libro di Azar Nafisi, una scrittrice, un’altra magnifica artista che viene dal mio Paese».

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