«UNA VITA DA INADEGUATO ORA SONO PROTAGONISTA LA MIA ANALISI? RECITO»
Giorgio Colangeli: «I miei genitori a Roma si sentivano a disagio e la paura di essere giudicato mi ha condizionato»
a Sor Ottorino a Ottone. Da un burbero all’altro. Stranamente Giorgio Colangeli ha inanellato due ruoli che si somigliano per nome e per ruvidezza. Nel grande successo del momento, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, è il suocero brontolone che critica la nuora perché «deve a impara’ a sta’ zitta», anche a forza di botte come succedeva nel 1946. In Castelrotto di Damiano Giacomelli, in anteprima lunedì prossimo, 27 novembre, al Torino Film Festival e non ancora programmato in sala, è un pensionato indurito dalla vita e dal rancore, che medita vendetta per un torto antico. Siamo nel 2015 in un paesello marchigiano sconvolto da un delitto e Ottone, ex maestro, da cronista locale addita gli uomini colpevoli, se non d’altro, di avergli rovinato la vita. Per il 73enne attore romano è
Duna bella prova d’attore: rende la sofferenza del protagonista e, insieme, dà un tocco ironico al suo caratteraccio. Si è affidato a qualche ricordo per calarsi in due tipi così scorbutici?
«Certi parenti li ricordo simili al Sor Ottorino della Cortellesi. Esprimevano pareri che non sembravano neppure violenti, negli Anni 50, tanto erano comuni, soprattutto nelle campagne dalle quali venivano i miei. Ottone invece è un uomo di oggi, burbero perché ha sofferto. L’ho cerato abitando per un po’ a Torchiaro, il centro di 115 abitanti diventato Castelrotto, mi sono immerso nella vita di paese».
I personaggi tosti la divertono?
«Interpretare i cattivi è liberatorio, soprattutto se sono lontanamente autobiografici: tiri fuori la parte di te che ne ha assorbito vizi e tic».
Castelrotto è la metafora di un mondo pieno di storture?
«Sì, e ricorda che dovremmo essere solidali davanti ai rovesci della vita. Minacce ambientali, guerre, chi pensa di uscirne da solo si illude. Come nelle scene di 2001 Odissea nello spazio dove gli uomini sono poco più che scimmie: si rifugiano nelle caverne mentre fuori ci sono animali feroci e terremoti. L’unica cosa che possono fare, in un mondo così ostile, è aiutarsi». Da ragazzo ha studiato Fisica. Cosa l’ha spinta a fare teatro?
«Il caso. Mi affascinava la filosofia della scienza, che allora le facoltà umanistiche non approfondivano. Facevo teatro per ragazzi per hobby, solo a 33 anni ho capito che poteva essere un mestiere ed era strano essere pagato per il divertimento. Inconsapevolmente devo aver assorbito il timore dei miei di non essere all’altezza». Per le loro origini?
«Sì. Mia mamma era figlia di un oste e papà di un fattore: da ragazzino ho sentito il loro senso di inadeguatezza a Roma. La città era un punto di arrivo ma non invitavano mai nessuno per timore di fare brutta figura. La paura di sbagliare ed essere giudicato, la ricerca di consenso, mi hanno condizionato profondamente. Per questo sono arrivato tardi a ruoli da protagonista».
Suo figlio ha ereditato la sua passione?
«Sì perché è uno psicanalista junghiano, in contatto con l’espressione artistica. Del resto l’attore è un analista inconsapevole di sé e degli altri, per la mia timidezza la scena è stata terapeutica. Oggi imparo molto chiacchierando con lui».
«IN CASTELROTTO SONO BURBERO PERCHÉ HO SOFFERTO, NEL FILM DI CORTELLESI DICO COSE VIOLENTE. MA NEGLI ANNI 50 ERANO NORMALI...»