AI NOSTRI RAGAZZI ABBIAMO PROMESSO IL BENGODI MA ERA UNA BALLA
Qualcuno ha detto che la nostra generazione, quella dei “baby-boomers”, è stata la prima a disobbedire ai genitori e la prima a obbedire ai figli. Deve averlo detto uno di noi. Siamo infatti anche la prima generazione ad eccellere nell’autodenigrazione, in preda a un protagonismo così esasperato da farci credere responsabili di tutto, anche del male. È vero, ce l’avevamo con i nostri genitori, e abbiamo contestato la loro autorità. Ma eravamo anche consci della riconoscenza che dovevamo loro. Perché da bambini li avevamo visti arrancare, lavorare, correre, sacrificarsi. Avevamo visto se non la povertà quantomeno la sobrietà delle loro vite. E comprendevamo quanto doveva essere stato difficile portarci fin lì, all’università, alla prima automobile, al benessere del miracolo economico, prima ancora che noi facessimo alcunché per meritarcelo.
Credo che invece oggi nei confronti dei nostri figli (i quali, non a caso, non si ribellano nemmeno) siamo animati da uno sconfinato senso di colpa. Come se tutte le difficoltà della nuova generazione, peraltro la più ricca e la più sana di tutta la storia, fossero nostra responsabilità. Di ciò che abbiamo fatto e non fatto, dell’effetto serra e della disoccupazione, delle baby gang e della diffusione delle droghe.
Ora sì, lo ammetto: abbiamo le nostre colpe. Soprattutto quella di aver sperperato la ricchezza nazionale, accumulata dai nostri padri, in mille rivoli di assistenza e spreco, convincendo così i figli che anche loro potessero continuare allo stesso modo, che i soldi da qualche parte ci sono, basta mandare al governo qualcuno che li distribuisca. Ma non sono d’accordo con la retorica sulla “generazione perduta”, cui noi padri cattivi avremmo “rubato i sogni”, lasciandoli alle prese con “l’eco-ansia” e il “bonus-psicologo”.
Penso al contrario che siamo responsabili di aver messo tra loro e il senso del dovere, tra loro e la disponibilità al sacrificio, una distanza siderale, molto maggiore di quella che divideva noi dall’impegno e dai sacrifici dei nostri genitori. Il risultato è davanti agli occhi. I ragazzi di oggi – non tutti, le eccezioni ovviamente sono numerose e ammirevoli – ci chiedono fin da piccoli di abbassare l’asticella dello stress il più possibile. E noi, diligenti, lo facciamo. Come spiegarsi altrimenti la proliferazione dei licei e dei corsi di laurea, se non come il tentativo di adeguare la difficoltà degli studi alla scarsa voglia degli studenti, in modo che tutti possano superare l’ostacolo – o almeno credere di averlo fatto – e conseguire un titolo di nessun valore sul mercato del lavoro perché così deprezzato? Come spiegarsi la contestazione del merito come criterio di valutazione, e dei voti come strumento di misurazione? Come spiegarsi le rivolte dei genitori contro i compiti a casa, o contro il sabato a scuola, in nome del dio week end?
I nostri figli non sono responsabili dell’epoca in cui sono nati, e dunque non sono tenuti all’idea di competizione che ha selezionato noi da giovani. Però sono ragazzi intelligenti. E dovrebbero ormai aver capito da soli che il Bengodi che gli avevamo promesso era una balla, e che la vita è un’altra cosa.
SIAMO RESPOSABILI DI AVER MESSO UNA DISTANZA SIDERALE TRA I GIOVANI E LA DISPONIBILITÀ AL SACRIFICIO