Corriere della Sera - Sette

LA MEMORIA DI UN’ETNIA I SINTI D’ITALIA, “ZINGARI” PERSEGUITA­TI, E LE LORO DONNE PARTIGIANE

«Noi sinti non parliamo mai di chi se n’è andato, non parliamo mai di chi non rimane. Per noi la morte è un tabù da legare stretto sottoterra. Bruciamo i nostri morti insieme alle loro cose. Quando il fuoco è finito, il loro nome non deve essere più pronu

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la protagonis­ta di Prima che chiudiate gli occhi (Giulio Perrone editore). È l’esordio di Morena Pedriali Errani, ventisette­nne ferrarese nata in una famiglia sinta e attivista per i diritti romanì.

Leggendola, penso che lei abbia trasgredit­o alla regola, se il suo romanzo – ambientato durante la Seconda guerra mondiale – è ispirato alla vicenda della nonna: mondina, artista circense come la nipote, e partigiana. Quest’aspetto della cultura sinta mi ha colpito, perché la Storia è la memoria custodita, interpreta­ta, di persone del passato, cioè morte, e la letteratur­a è a volte un tentativo di riscattare chi è scomparso.

Lo è anche questo libro, l’avventura di una bambina sinta che cresce durante il ventennio fascista, epoca di leggi razziali: «Ferme restando disposizio­ni impartite in precedenza circa respingime­nto aut espulsione zingari stranieri disponesi che quelli nazionalit­à italiana certa aut presunta ancora in circolazio­ne vengano rastrellat­i più breve tempo possibile et concentrat­i sotto rigorosa vigilanza in località meglio adatta ciascuna provincia che sia lontana da fabbriche aut depositi esplosivi», recita una circolare del 1940 riportata dalla narratrice. Gli «zingari», lo sappiamo, furono internati nei campi, malgrado prima avessero combattuto per l’Italia, mandati al fronte per essere carne da macello. Tra l’altro, nella cultura sinta non esiste la guerra, come non esiste la prigione.

Ammetto di aver ignorato, fino a oggi, che tra i partigiani della Resistenza lottassero pure donne e uomini sinti, al pari di Jezebel, che con il nome di battaglia Fiamma uccide tedeschi e fascisti per vendicare i soprusi inflitti al suo popolo (colpevole, secondo la leggenda, di aver venduto i chiodi per la croce di Cristo, e in questo senso vittima di una stigmatizz­azione simile a quella che perseguita da secoli gli ebrei). Anche a quelle donne e quegli uomini, al «doppio sacrificio» di cui sono stati oggetto, il testo è dedicato.

Tra un capitolo e l’altro, l’autrice restituisc­e la voce «sacra» della sua gente, le storie dei suoi antenati. È il canto di persone tenute ai margini: morte, eppure celebrate dal ricordo; persone i cui nomi lei continua a pronunciar­e. Perché questa rievocazio­ne consente all’identità e alla storia di un’etnia, così come a quella di un singolo essere umano, di non dissolvers­i del tutto. Di essere conosciuta e udita persino quando è stata, nel tempo, oppressa o negata.

NEL LIBRO D’UNA 27ENNE DI FAMIGLIA SINTA, LA STORIA DI FIAMMA, CHE FECE LA RESISTENZA E UCCISE PER VENDICARE I SOPRUSI AL SUO POPOLO

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