COLETTE E LE ALTRE CHE HANNO TROVATO IL SACRO GRAAL
Dalla scrittrice francese a Artemisia Gentileschi fino all’iraniana Laila Basim. Con il loro talento hanno conquistato quello che considero l’obiettivo massimo di ogni lotta femminista: la completa autonomia e l’indipendenza economica
In principio volevo essere Marianne Faithfull, la fidanzata bionda e angelicata di Mick Jagger, il cantante dei Rolling Stones. L’avevo eletta a mia musa personale negli anni dell’adolescenza, non solo per amore del rock, ma perché per noi ragazzette cresciute nell’austerità di un’Italia ancora provinciale Marianne rappresentava il sentiero luminoso della libertà e dell’indipendenza.
Poi è arrivata Colette, la scrittrice francese controversa e politically incorrect, spesso criticata dalle femministe per la sua allergia a ogni impegno civile, che le faceva preferire a qualsiasi convegno di suffragette la bella vita effervescente dei salotti. Eppure la biografia e i libri di Colette — che poi sono la stessa cosa — per svariate generazioni sono stati più dirompenti di un manifesto politico, e tuttora sono un vademecum prezioso per quante vogliano evadere dall’eterna gabbia di stereotipi e pregiudizi che continua a imprigionare le aspirazioni delle ragazze.
Le muse sono da sempre necessarie, e non solo per gli artisti in cerca di ispirazione. Tutti, uomini e soprattutto donne, abbiamo bisogno di mentori e maestre che ci regalino una scossa vitale: quella scintilla indispensabile per mettere in moto la nostra fantasia. Visto che qualsiasi atto creativo si nutre di ciò che riusciamo a catturare fuori dalla nostra comfort zone, ripercorrere le vite di queste donne straordinarie è stato un po’ come seguire dei segnali luminosi che mi hanno aiutato a uscire dal guscio delle mie insicurezze regalandomi il coraggio di scoprire strade alternative a quelle che il destino (o meglio, la famiglia e la società) avevano già stabilito per me. Alcune delle mie muse, come la scrittrice losangelina Eve Babitz, sono state compagne di viaggio intrepide: camminando in bilico su fulmini e saette, al pari di acrobate su un filo teso sopra l’abisso, mi hanno insegnato a non aver paura della fragilità. Altre, come Gala e Alma Malher, che hanno fatto del “musismo” un’arte raffinata, mi hanno mostrato come liberarmi dai sensi di colpa e coltivare qualche “ambizione”: parola tabù se accostata a una donna.
Sotto la generica definizione di “muse” si nasconde un universo che racconta la storia della creatività umana e, su questo campo di battaglia molte di loro hanno giocato un ruolo pari a quello degli artisti che hanno ispirato. Penso ad esempio a Dora Maar, “la femme qui pleure” dei quadri di Picasso, una grande fotografa che il genio catalano ha catturato nel suo harem issandola su un piedistallo più simile a una prigione che a una posizione privilegiata. È normale che alcune di queste figure, all’apparenza sottomesse, che hanno sacrificato i loro talenti per lustrare come argenteria preziosa quelli dei loro compagni, siano state etichettate come vittime. Ma se guardiamo più da vicino, scopriamo che dentro i recinti in cui la storia le ha relegate si nasconde un mondo in ebollizione, una galassia multiforme e variopinta che, forse proprio a causa delle costrizioni del tempo, ha permesso alle muse moderne di sviluppare capacità inaudite. Conoscere le loro storie è anche un modo per comprendere come non finire intrappolate in amori malati
che, come tele di ragno, attraggono le loro prede grazie a una narrazione romantica che ci ha spesso illuso facendoci credere che incarnare le sembianze di una musa tragica sia un’opzione più affascinante di una vita considerata normale.
Va però detto che soprattutto in passato, la carriera di musa è stata anche una escape-strategy, l’unica possibilità di raggiungere mondi preclusi alle donne, e di “fare carriera” per le ragazze che volevano dipingere, scrivere e comporre versi, visto che l’accesso a ogni scuola o accademia era loro sbarrato. Anche la pittorra (come amava definirsi lei stessa) Artemisia Gentileschi non aveva altra strada per sviluppare il suo grande talento che osservare in silenzio il padre e gli artisti della sua bottega all’opera con colori e pennelli mentre la ritraevano in decine di ritratti. La sua storia è tristemente famosa a causa dello stupro che subì da un amico di famiglia, “un collega”, e del violento e umiliante processo a cui fu sottoposta per far valere le sue ragioni, per non parlare del matrimonio con un pessimo soggetto a cui il padre la costrinse per recuperare un posto nella società. Nonostante questa catena di eventi drammatici, Artemisia riuscì a far valere il suo talento e soprattutto a conquistare quello che io considero il Sacro Graal di ogni lotta femminista, ovvero la completa autonomia e l’indipendenza economica.
E poi ci sono le muse a loro insaputa — malgré soi, come dicono in Francia —. Non so quanti di voi siano familiari con l’espressione “effetto Matilda”. Fu coniata in onore della leggendaria giornalista Matilda Joslyn Gage, una suffraggetta ottocentesca che non solo contestò il pregiudizio secondo cui le donne non sono naturalmente portate a quelle materie che oggi vengono riunite sotto la sigla STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), ma dimostrò che, nonostante l’esclusione dai più alti livelli d’istruzione, alcune delle più importanti invenzioni della storia dell’umanità sono state fatte dalle donne, solo che poi, puntualmente vennero attribuite agli uomini realizzando, appunto, il triste “effetto Matilda”. Tra le vittime, innumerevoli, di questo fenomeno posso citare Sophie Germain, la prima donna a entrare, sia pure sotto mentite spoglie, all’École Polytechinque di Parigi alla fine del Settecento, e a cui si deve la serie di equazioni sulle piastre sottili che per duecento anni sono state chiamate “equazioni di Lagrange” dal nome del suo professore, il celebre matematico Joseph-Louis Lagrange. O Ada Lovelace, la figlia di Lord Byron, che di fatto a metà Ottocento inventò — o quasi — l’intelligenza artificiale di cui tanto parliamo oggi, ma che a lungo si vide sottrarre le sue intuizioni da Charles Babbage. Due di una serie quasi infinita di matematiche e scienziate straordinarie che non hanno ottenuto i giusti riconoscimenti, mentre il frutto del loro lavoro ha fatto guadagnare posizioni accademiche e premi Nobel ai colleghi maschi che le hanno oscurate.
Tra i tanti i campi in cui le donne si sono trasformate in muse, non si può non citare la politica: fiere come Marianne, la figura femminile che si erge sulle barricate nel celebre quadro di Eugène Delacroix, hanno sempre combattuto in battaglie fondamentali, nel nome della libertà. Penso ad Anita Garibaldi appassionata guerriera per l’indipendenza dei popoli oppressi spesso ricordata solo come l’ombra di Garibaldi, ma anche alle migliaia di giovani che oggi lottano per veder riconosciuti i diritti più elementari: fra tutte, Masha Amini, la ragazza iraniana pestata a morte da una pattuglia della polizia morale poiché, a loro dire, “malvelata”, o Laila Basim, valente economista afghana che, con l’avvento dei talebani, ha perso ogni possibilità di lavorare e ha rischiato la vita nel tentativo di tenere aperta una biblioteca a Kabul affinché le donne possano continuare istruirsi.
Anche per loro, e per le nuove generazioni, in questo momento di grande confusione sotto il cielo mi è sembrato decisivo far emergere le storie di queste figure eccezionali, riscoprirle, riportarle alla luce e, se necessario, vendicarle.