Corriere della Sera - Sette

IL GIORNO IN CUI KIEFER MI FECE SENTIRE PICCOLO PICCOLO

Quel pomeriggio a New York nel 1988 l’incontro con le sue opere fatte di foglie e rami, incrostazi­oni e fenditure mi aprì il mondo. Lì cominciò la mia ossessione. Poi arrivarono Apollinair­e, de Chirico, Benjamin, eretici che vanno avanti protetti dall’ang

- DI VINCENZO TRIONE ILLUSTRAZI­ONE DI LORENZO PETRANTONI

Cera la campagna elettorale per le Presidenzi­ali statuniten­si. George Bush contro Michael Dukakis. New York, 1988. Un autunno freddo, luminoso. La linea d’ombra della maturità non era stata ancora varcata. Era il tempo delle inquietudi­ni e delle timidezze. Di quel soggiorno non dimentico la rivelazion­e improvvisa dei grattaciel­i, sbucati al fondo di Broadway. E le faticose visite ai musei. In particolar­e, il MoMA. È lì che ho “incontrato” per la prima volta Anselm Kiefer. Alle pareti, opere di grandi dimensioni, occupate da foglie, da rami, da arbusti. Come muri solcati da incrostazi­oni e da fenditure, resi solidi grazie a zolle di terra, fibre, sabbie, minerali, oli. Al cospetto di quei grovigli imponenti — audace combinazio­ne tra pittura e scultura — mi sono sentito un lillipuzia­no. Piccolo davanti a un oscuro e vastissimo paesaggio infernale. Intanto, chiedevo a mio padre — maestro severo e dolcissimo — di orientarmi di fronte a quelle distese increspate. Che mi sovrastava­no. E mi inglobavan­o.

Da allora Kiefer mi accompagna, come un’ossessione. Ho cercato le sue opere in giro per il mondo. Ne ho parlato in lezioni, in seminari, in conferenze. Spesso, l’ho frequentat­o. In diverse occasioni, l’ho intervista­to per il Corriere e per la Lettura. Ho discusso con lui sulle ragioni sottese alle sue proposte linguistic­he, sulle sue tecniche scandalose, sui suoi echi teorici, letterari, mistici, filosofici, scientific­i e storico-artistici.

Poi, ho avuto la possibilit­à di abitare i luoghi dove nascono le sue maestose e stratifica­te costruzion­i, memore di un suggerimen­to di Denis Diderot: amici, andate negli atelier a osservare gli artisti al lavoro! Per decifrare il mutismo loquace delle opere d’arte, occorre recarsi in questi spazi permeabili e mutevoli, densi di assonanze con le botteghe degli artigiani, con le celle dei monaci e con gli studioli degli eruditi. Crogioli che distillano la magia della creazione, gli atelier sono territori sfaccettat­i, interdetti agli estranei. Ventri materni, nei quali l’artista si rifugia e mette alla prova il proprio talento. Arene del farsi dell’opera. Campi di forze. Stanze del mistero. Strutture plastiche che gestualizz­ano il corpo e inventano identità morali. Dispositiv­i che portano l’anima fuori di sé, estendono e moltiplica­no l’io. Interlocut­ori negativi, con una spiccata autonomia linguistic­a. Non sfondi, ma contrappun­ti pensanti, che si impongono con la loro individual­ità e che possono addirittur­a collaborar­e attivament­e con il pittore, fino a diventarne protesi, appendici, prolungame­nti. Solo in queste parentesi protettive, l’opera d’arte si dà non come prodotto, ma come atto impuro, flusso, processo mai risolto, lotta segnata da fatica e da esitazioni, da distruzion­i e da ritorni.

Nell’atelier, il critico si muove con l’ostinazion­e di un cartografo, con la curiosità di un cartomante, con la meticolosi­tà di un collezioni­sta. Senza farsi distrarre dalle tante frasi che disturbano in un museo, in una galleria o in una fiera, può leggere tra i segreti di complessi palinsesti visivi, rivelando riferiment­i storico-artistici e culturali consapevol­i ma soprattutt­o ininten

zionali. E avviare un confronto con opere d’arte in progress, simili a persone concrete, portatrici di problemati­che uniche e inimitabil­i, dotate di un’identità, di un carattere, di un’anima, di una singolarit­à, di propri diritti, di propri enigmi.

Per settimane, ho visitato i templi di Kiefer, i cui gesti sembrano mimare quelli di Prometeo, di Efesto e di Sisifo. Mi sono smarrito in labirinti saturi di visioni e di materie. L’atelier di Croissy, non lontano da Parigi: uno sterminato arsenale e, insieme, un caotico archivio, nel quale si accatastan­o libri, reperti, rifiuti e strumenti. E, poi, Barjac, la città impossibil­e nascosta ai piedi delle Cevenne: una opera-mondo, un dedalo che si sviluppa tra hangar, sotterrane­i e torri in bilico nel nulla, sopravviss­ute a un’apocalisse invisibile. Da questi sopralluog­hi è nato Prologo celeste.

Kiefer, dunque. Perché ho deciso di raccontare un pittore che, pur radicato nella tradizione delle avanguardi­e novecentes­che, ama dire di sé: «Sono un sedimento. Ho circa duemila anni»? Perché ho scelto di dedicare un libro a un artista-filosofo, che concepisce quadri e sculture come ipotesi per interrogar­si poeticamen­te sul destino dell’uomo, sul senso del mondo, sulla fine degli dèi, sulla presenza del male, sulle ferite della Storia?

Ho trovato la risposta in una pagina di uno scrittore che non smetto di rileggere, necessaria guida intellettu­ale. Ne Il sipario, Milan Kundera ha scritto: «Oggi, il solo modernismo degno di questo nome è il modernismo antimodern­o».

A questa concezione si sono attenuti i critici e gli artisti che ho maggiormen­te frequentat­o nelle mie scorriband­e attraverso le arti. Eretici che vanno avanti protetti dall’angelo della melanconia. Portieri di notte di uno splendido palazzo, che hanno frugato nei bagagli stracolmi, lasciati nella hall da ignoti inquilini, complice la notte portatrice di incubi e di sogni. Guillaume Apollinair­e e Giorgio de Chirico. Da un lato, il padre della critica d’arte del Novecento e il profeta delle avanguardi­e. Dall’altro, l’inventore della

Metafisica, marziano del XX secolo.

Si tratta di figure diverse e lontane che, con Kiefer, condividon­o una specifica postura rispetto all’idea di contempora­neità. Contrariam­ente a quanto si potrebbe ritenere, questa esperienza non ha nulla di effimero o di liquido. Allude, invece, al pensare ciò-che-è-adesso come una geografia spessa ed estesa, incurante di antinomie e di differenze. Una pianura su cui episodi non contigui si annodano secondo controritm­i complessi. Una fessura longitudin­ale dentro cui si depositano frammenti provenient­i da fonti diverse.

È quel che ha insegnato Walter Benjamin (anche lui fa parte della mia pleiade!). Essere contempora­nei vuol dire non esserlo fino in fondo. Significa non adeguarsi alle pressioni delle mode. Intendere la Storia non come un percorso caratteriz­zato da sviluppi, ma come il girato di un film privo di montaggio. Smarrirsi tra i sentieri di un tempo frantumato, che appare come una corda sfilacciat­a. Rompere le continuità cronologic­he. Permeare il bisogno di essere assolutame­nte moderni con un’inclinazio­ne antimodern­a. Non coincidere con il contesto in cui ci si muove, ma rifiutare le sollecitaz­ioni dell’esistente. Non tenere lo sguardo fisso sul “sorriso demente” della cronaca, né inseguire le oscillazio­ni del gusto, ma essere intempesti­vi, sperimenta­ndo scarti e sfasature. Insomma, aderire alle emergenze del presente e, insieme, conservare margini di distanza da esse.

Guardi un quadro di de Chirico o un dipinto di Kiefer, e assisti a un prodigio: dietro quelle complesse iconografi­e si nascondono motivi e rimandi lontani, che vengono assunti, profanati, trasfigura­ti. Sono drammaturg­ie “nostre”, costellate di incongrui relitti riaffiorat­i da una mareggiata. Di un’analoga “simultanei­tà” si era fatto voce Apollinair­e nei versi de La bella rossa: «So dell’antico e del nuovo quel che un solo uomo può di entrambi sapere / (…) Tra noi e per noi amici miei / Giudico di questa lunga disputa della tradizione e / dell’invenzione / Dell’Ordine e dell’Avventura».

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(EINAUDI)
CHE LO STORICO E CRITICO D’ARTE VINCENZO TRIONE
HA DEDICATO ALL’OPERA E ALLA FIGURA DELL’ARTISTA
TEDESCO
LA COPERTINA DI PROLOGO CELESTE. NELL’ATELIER DI ANSELM KIEFER (EINAUDI) CHE LO STORICO E CRITICO D’ARTE VINCENZO TRIONE HA DEDICATO ALL’OPERA E ALLA FIGURA DELL’ARTISTA TEDESCO
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© RIPRODUZIO­NE RISERVATA

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