Corriere della Sera - Sette

«IL CODICE “ETICO” DELLE TRIBÙ ULTRAS O I TIFOSI SPENNATI DEL CALCIO DI OGGI?»

- DI PAOLO BALDINI Dall’alto, l’ultrà atalantino Claudio “Bocia” Galimberti, che il Daspo e obbliga a non tornare a Bergamo; la curva dell’Atalanta; il tifo con bandiere e fumogeni

Ama il cinema estremo, «i film scomodi, capaci di raccontare storie altrimenti inaccessib­ili, e i registi che portano la macchina da presa oltre la traccia comune». Vide Fitzcarral­do di Werner Herzog e si innamorò di quel viaggio borderline nella giungla dell’Amazzonia. In oltre vent’anni di documentar­i ispidi e incuriosit­i Andrea Zambelli, 48 anni, laurea al Dams, ha sempre scelto la strada più dura. «Facile è un aggettivo che non mi s’addice. Faccio film su argomenti per cui i media, spesso, storcono il naso», spiega. Deheishe refugees camp, una regia collettiva, fu girato in Palestina durate la seconda Intifada, Irrawaddy mon amour in Myanmar durante il primo regime militare, Mercancia in Colombia tra i campesinos ei cocaleros del Magdalena Medio. «Nel 2016, in un campo profughi di Salonicco ho raccontato l’attesa di una famiglia siriana che durava da due anni, mentre la mia coregista teneva lezioni d’inglese e io organizzav­o cineforum per i bambini con i cartoni animati. I mass media si focalizzan­o sugli sbarchi, ed è giusto. Ma il veleno dell’attesa uccide la speranza».

Zambelli debuttò nel 2001 con Farebbero tutti silenzio, ritratto «dal basso» della Curva Nord dell’Atalanta, covo di passioni, codici guerreschi e gesti di solidariet­à. Ventidue anni dopo, per chiudere il cerchio, ha portato al Torino Film Festival A guardia di una fede, coproduzio­ne di Rossofuoco e Lab80 Film, report di una storia tormentata e di come siano cambiati gli ultras e il calcio. «Da fiaba domenicale, un po’ romantica, a show orwelliano dominato dal business, con i tifosi trasformat­i in clienti da spennare». È il calcio delle superleghe, dei diritti tv, dove «più dei meriti sul campo contano i fatturati». Il risultato, dice, è che «abbiamo spento le violenze, e questo

va bene, ma abbiamo perso di vista il concetto di partita e di sport».

Zambelli ha raccolto filmati che vanno dal 1998 a oggi. La voce narrante è il leader storico della Curva, Claudio “Bocia” Galimberti, trent’anni di Daspo sulle spalle e una storia di processi, condanne, interrogaz­ioni parlamenta­ri e un esilio da Bergamo che lo ha portato a coltivare cozze nelle Marche, a Sinigallia. «Claudio soffre di non poter essere sugli spalti. Ma ha trovato una nuova vita. E non dimentica le radici». Nel film compaiono in immagini di repertorio il presidente atalantino Antonio Percassi, gli allenatori Emiliano Mondonico e Gian Piero Gasperini, l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, campioni ed ex campioni della Dea. Zambelli spiega: «Per chi è cresciuto a Bergamo la Curva è uno spazio che prima o poi ti trovi a frequentar­e. Per molti ragazzi della mia generazion­e ha segnato il momento di passaggio dall’adolescenz­a all’età adulta. A guardia di una fede è la sintesi di un viaggio attraverso il tempo, dagli scontri degli anni Novanta alla repression­e, fino agli spalti vuoti per il Covid».

Zambelli rammenta la lezione dell’etologo britannico Desmond Morris, aucon tore de La tribù del calcio: «Ho avuto la fortuna di conoscerlo mentre stava scrivendo una nuova edizione del libro. Desmond conosce l’Atalanta e la sua storia. Per descrivere il senso di una partita parla di caccia rituale, battaglia stilizzata, dimostrazi­one sociale, cerimonia religiosa, intesa commercial­e, rappresent­azione teatrale. La tendenza oggi è di trasformar­e il match in una sorta di salotto virtuale per il consumo privato». Aggiunge: «Non bisogna confondere ultras con hooligans, fenomeni diversi, espression­e di realtà diverse. Le curve italiane nascono negli anni Settanta, una forte componente politico-sociale e aspetti di solidariet­à. Il tifo organizzat­o è una faccenda di comunicazi­one attraverso cori, striscioni eccetera. Poi ci sono regole. C’è un codice etico, c’è il rispetto. Non si attaccano tifosi a caso: l’ultras se la fa con gli ultras avversari».

Ricorda gli esordi nel cinema: «La mia generazion­e è figlia dell’accelerazi­one digitale, quando montare un film non era più un’impresa impossibil­e. All’epoca ero uno studente impegnato politicame­nte. Cominciavi a chiederti: ora cosa racconto? In quel periodo ero attratto dalla dinamica della Curva più che dal tifo classico. Non sono mai stato un ultras. Mi potrei definire un cane sciolto. Quello era uno spazio che conoscevo. Ed è nato Farebbero tutti silenzio. Per vent’anni sono stato in giro. Ho abitato a Bologna, a Torino, ho fatto tanti viaggi. Però ogni volta a Bergamo tornavo lì, tenevo contatti, facevo riprese, acquisivo materiale». Oggi vive «sulla strada per le montagne» e ha una figlia di sette anni, Viola. Si è appassiona­to al cinema vedendo i film di Pier Paolo Pasolini, i capolavori russi, il regista sovietico Sergej Ejzenštejn. Sono rimasti i suoi punti di riferiment­i. Ha raccontato gli adolescent­i della Palestina: come crescono in un campo profughi e qual è il loro rapporto con la morte. Ha descritto una Gaza diversa di rapper, parkourist­i, giovani giornalist­i, pastori e contadini. Ma della situazione attuale preferisce non parlare: «Sono troppo sconvolto emotivamen­te». In Birmania ha raccontato il primo matrimonio omosessual­e. Il prossimo step sarà un film di fiction. «Per tanti anni i documentar­i mi hanno dato la quota di verità di cui avevo bisogno. Ora sento che quella quota, in questo putiferio di mondo, si è abbassata. Forse è il momento di passare a una fase nuova».

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Senigallia. A lungo alla guida degli ultras di Bergamo, ha alle spalle trent’anni di Daspo, processi, condanne e interrogaz­ioni parlamenta­ri
Due momenti della nuova vita di Claudio Galimberti, che, esiliato da Bergamo, si è ora trasferito nelle Marche dove fa il coltivator­e di cozze a Senigallia. A lungo alla guida degli ultras di Bergamo, ha alle spalle trent’anni di Daspo, processi, condanne e interrogaz­ioni parlamenta­ri

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