«PERSI OGNI IMBARAZZO CON LUCIO FONTANA AD ARMANI DICEVO: BELLE LE GIACCHE DI VERSACE»
Una protagonista del mondo della moda si racconta dopo 60 anni di carriera. Un diario italiano dagli incontri con i grandi stilisti alle riunioni ad Arcore con Berlusconi. «Disse: “Chi tiene al Milan?”, si alzarono tutte le mani tranne la mia. A ripensarc
n 60 anni di carriera Carla Vanni, direttrice storica di Grazia e promotrice di 21 edizioni del settimanale nel mondo, dalla Francia all’India alla Cina, non ha mai parlato di sé ma ha fatto solo parlare il suo lavoro, vestale di un’idea di privatezza quasi maniacale. Ora infrange la regola di una vita e dopo 14400 sfilate e innumerevoli viaggi intorno al mondo esce con un memoir molto arguto che si può leggere di filato, cominciando dall’inizio, ma anche andando a ritroso oppure aprendo un capitolo a capriccio.
Dalla prima sfilata (dove ha fatto “la bottiglia”, non trovando posto era stata posizionata in un’alcova dove normalmente c’era appunto una bottiglia di profumo), a una delle ultime, a Parigi, dove si annoiava e ha cominciato ad annotare a matita sensazioni a latere su un foglietto. Chiedendosi «cosa ci faccio ancora qui?». Da questo senso di vanitas vanitatum è nato il suo Diario incompleto (di giornalismo e di moda), per Rizzoli, a cura di Egle Santolini. Dopo la discrezione di una vita, ora questo racconto di una vita professionale,
Iche azzarda anche qualche incursione nel privato. «Forse mi sono decisa nel momento peggiore, anche se momenti orrendi ne abbiamo passati tanti, mi sento un po’ a disagio a uscire proprio in questo periodo così duro, così difficile. Per una vita ho fatto il mio dovere, cercando di farlo in modo serio, con rigore e impegno assoluto. Sono sempre stata una stacanovista, quando facevo la moda dicevo questa è l’ultima foto, ma poi ce ne era un’altra e un’altra ancora. Ero insopportabile. Negli anni in cui ho cominciato a fare Grazia International mi chiedevano se c’era un libro in cui parlavo di filosofia dello stile Grazia, ma rispondevo sempre di no, preferivo far parlare il mio lavoro. Ma si cambia. E così ho scritto anch’io».
Pentita, dunque, di tanta discrezione? Qual è quella che le è pesata di più?
«Una volta sono stata invitata da Lucio Fontana, l’artista, nel suo studio, insieme a mio marito Vincenzo che era suo amico, in un pianterreno in corso Monforte, e lui mi ha sorpreso offrendomi un quadro dei suoi, immenso e meraviglioso con tre tagli al centro, giallo, potente. Io a quei tempi non capivo fino in fondo i suoi quadri - anche se non ero l’unica - ma mi affascinava il fatto che dietro a quei suoi tagli ci fosse l’ignoto, che ci poteva essere tutto. Ma quel giorno nel suo studio ero imbarazzata, senza parole, quasi paralizzata; ho guardato Vincenzo pensando mi aiutasse, ma lui stava zitto».
E Fontana si è offeso?
«Assolutamente no, lui ha capito, si è chinato a cercare fra le sue tele e ha tirato fuori un’altra opera più piccola, chiedendo: “Questa ti imbarazza meno?”. È quella bianca con tutti i buchi che ora è in coper
«SONO STATA UNA STACANOVISTA, QUANDO FACEVO LE PAGINE DICEVO QUESTA È L’ULTIMA FOTO, MA DOPO CE N’ERA SEMPRE UN’ALTRA. ERO INSOPPORTABILE»
tina del libro. Ma mai mi sono sentita così ridicola. Ho anche chiesto poi a mio marito perché non fosse intervenuto e lui mi ha detto che era una decisione mia. So che ora prenderei quello giallo perché era stato un incontro bello, particolare, avevo davanti a me Fontana che mi offriva questo quadro e io dicevo di no. Ora mi sembro matta. Però tutto questo mi è servito di lezione: perché da allora l’imbarazzo non mi ha più fermata. Anzi, mi ha spinto a dire le cose che pensavo, nel bene e nel male». Difatti al suo amico Giorgio Armani ha sempre avuto il coraggio di dire che le piacevano anche le giacche dell’eterno rivale Gianni Versace.
«Sì, lì la discussione era quasi divertente, specie in vacanza, quando eravamo rilassati a Pantelleria, nella “collina incantata”, dove ci ospitava in tanti dammusi sparsi, e lui si arrabbiava… perché in certi momenti a me vengono queste voglie di stuzzicare un po’, per cui gli dicevo: “Trovo che le giacche di Gianni siano bellissime, è un altro discorso dalla tua giacca, all’opposto, però c’è una struttura tale, è talmente studiata, talmente perfetta, di grande abilità e bravura…”. D’altra parte la mamma di Gianni era sarta e lui aveva un certo tipo di occhio che aveva imparato da piccolo. Poi la giacca di Armani destrutturata è meravigliosa. Io ho portato di più la sua giacca, per la quale ero impazzita. Quella di Versace era più difficile, però mi piaceva, come mi piacevano i suoi vestiti con tutti gli spilloni che davano una grande grinta alla donna che li indossava. Giorgio si arrabbiava a queste piccole provocazioni, ma poi ridevamo; era una specie di scontro-incontro».
Versace era anche simpatico.
«Moltissimo, molto aperto. L’ultima volta che ci siamo visti, alla vigilia di un compleanno di Giorgio, una sera a casa sua mi dice: “Vorrei fare una grande festa per il compleanno di Giorgio, secondo te verrebbe?”. Io gli ho risposto prova, poi forse non c’è stato il tempo, lui è stato ucciso a Miami. Ma era spiritoso e divertente, e nell’ultimo periodo era molto deluso da Milano, sosteneva che qui non succedeva mai niente, difatti ogni volta diceva ora faccio una telefonata in America, così mi raccontano delle cose diverse, nuove». Era un po’ come Leonardo Mondadori, curiosi del mondo e innamorati dell’energia americana.
«Sì, in questo erano simili. Ricordo una telefonata con lui da New York dopo il famoso 11 settembre, un sabato pomeriggio mentre lui era davanti al buco delle due torri e mi raccontava in diretta tutto quello che vedeva: la miseria spaventosa di quella tragedia, diceva non è possibile che ci sia un mondo così dietro questa nostra vita apparentemente facile... E gli ho detto perché non lo scrivi? È venuto un pezzo bellissimo».
Anche con Berlusconi nessun imbarazzo?
«Beh, c’è l’episodio di una delle famose riunioni del sabato ad Arcore con i direttori delle tv e dei giornali (35 persone, 33 uomini e due donne, io ed Edvige Bernasconi) in cui lui ha chiesto ”Chi tiene al Milan?”: 34 mani alzate, eccetto la mia che rimane abbassata. “La signora Vanni non tiene al Milan?” chiede lui, e io: “Non tengo al Milan né ad altro, perché non mi piace il calcio”. A ripensarci oggi mi sembra tutto surreale, ma allo stesso tempo divertente».
Per anni in redazione lei è stata la “signora Vanni”, temutissima per il suo bisogno di controllo tanto che lei stessa racconta che Stefano Gabbana, che ha la sua stessa sindrome, in atelier è soprannominato “Signora Vanni”. Eppure lei ora lo odia, quel termine, non ne vuol sentire parlare, perché?
«In realtà l’ho sempre odiato. Non mi piaceva allora, e non mi piace oggi».
Lei dice: «Ho avuto la fortuna di avere avuto genitori severi».
«Severissimi. E sono contenta. Credo che un’educazione severa, forte, sarebbe utile proprio oggi».
Eppure sua madre era avanti per i tempi, elegante, parlava 4 lingue, a 80 anni ha fatto uno stage in Germania per rinfrescare il suo tedesco. Tanto che la sua amica Mariuccia Mandelli (Krizia) quando la conobbe, disse: «Ma come mai, con questa madre, tu sei venuta così normale?».
«L’avrei uccisa, ma Mariuccia era fatta così. Mia mamma era una donna molto aperta, quasi spregiudicata. È lei che ha proprio ficcato in testa a noi tre sorelle l’idea di essere autonome, lavorare e non dover chiedere niente a nessuno».
Oggi lei ha lasciato la Mondadori, anche se è editorial advisor di Grazia Usa. Dice di sentirsi libera, di non avere più le etichette del ruolo. Abbandonerà anche il suo segno distintivo di stile, la camicia bianca?
«No, la camicia bianca sono io. Ma ora sto scoprendo un nuovo modo di essere, che mi piace».
«MIA MADRE ERA UNA DONNA MOLTO APERTA, QUASI SPREGIUDICATA. È LEI CHE HA PROPRIO FICCATO IN TESTA A NOI TRE SORELLE L’IDEA DI DOVER ESSERE AUTONOME»