«BELVE SENZA SPERANZA NELLA MIA ROMA MALATA E APOCALITTICA»
Figlio d’arte, il regista di Suburra trasforma il trio Favino-Mastandrea-Servillo «in assassini e traditori, faccio scomparire tre grandi attori sotto i personaggi»
I corpi, ecco. «Su quello, sì, abbiamo lavorato molto». Le voci, la mimica facciale, le posture, i gesti, le implicazioni psicologiche, i cambi di marcia. E poi le riprese: «Abbiamo cercato il campo largo: gli attori dovevano potersi esprimere in ampiezza. Dovevano invadere lo spazio, riempirlo, definirlo». C’è un andamento musicale, un Adagio come dice il titolo o un Requiem come verrebbe naturale, che accompagna la storia-partitura di Cammello, Daytona, Polniuman, rispettivamente Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, «tre leggende della Roma fuorilegge», e, dall’altra parte della barricata, di Vasco (Adriano Giannini), «lo sbirro che li insegue, un presunto vendicatore che scorge nel loro passato la sua parte peggiore».
Anime in cerca di una tardiva redenzione, padri alle prese con i figli in una città marginale travolta dagli incendi e dai blackout. Una città di sovrapposizioni urbanistiche, viadotti e fantasmi, dove vivere è difficile e ancora di più progettare un futuro. Adagio, nei cinema da giovedì 14 dicembre con Vision Distribution, è un crime esistenziale. Stefano Sollima, 57 anni, spiega che «il film racconta il confronto generazionale invitando chi è più avanti con l’età a fare un passo indietro, ad aiutare i giovani».
Questo, ma non solo. Sollima è il regista di Romanzo criminale - La serie, Gomorra - La serie, ACAB, Suburra e il figlio di quel Sergio Sollima che nel 1976 firmò la storica serie tv Sandokan (1976) con Kabir Bedi e Carole André. Adagio, sostiene, è stata prima di tutto l’occasione per tornare a Roma dopo la lunga parentesi internazionale con Soldado, Senza rimorso, ZeroZeroZero. «Un atto d’amore, un regalo che mi sono concesso. Riabbracciare la mia città attraverso un noir alternativo, alla mia maniera, con il consueto tema del confine evanescente tra il bene e il male. Lo confesso: avevo nostalgia. Sentivo il bisogno di chiudere il ciclo sulla Roma criminale. La città in sé, con le sue contraddizioni, non è cambiata granché. Siamo noi invece che non siamo più gli stessi. L’idea degli incendi, dell’aria irrespirabile che attraversa il film è ispirata all’attualità, ha un forte significato simbolico. Espressivamente interessante, vagamente apocalittico. Dalle macerie un giorno risorgerà: è questo lo spunto. Roma raccontata come Los Angeles. Con un approccio visivo non abusato».
Aggiunge che «la scommessa, avendo a disposizione un cast di talenti, è stata chiara fin dall’inizio: far scomparire gli attori a favore dei personaggi». Cammello, Daytona e Polniuman sono tre maschere, tre uomini
in declino, «tre belve senza pace che hanno ucciso e tradito». Si muovono in una città febbricitante, senza speranza, in attesa della pioggia purificatrice. Conoscono le regole, sanno che il loro destino è segnato. Erano parte di un sistema, ne sono usciti. Cercano la redenzione proteggendo un ragazzino, Manuel, 16 anni (Gianmarco Franchini), che s’è messo nei guai: la ribellione esige un conto da pagare. Dice Sollima: «Per dare ai personaggi una fisionomia credibile abbiamo usato il trucco prostetico, anche pesante. Ci siamo impegnati per giorni a costruire i profili, con molta attenzione al taglio delle immagini. Prendi Favino: il suo Cammello è un malato terminale, un uomo crudelissimo sottoposto a chemioterapia. Quindi doveva essere glabro, parlare come se sussurrasse, trascinarsi con sofferenza, avere il dolore negli occhi e un’andatura speciale, inquietante, un‘andatura che non si dimentica». Aggiunge che il percorso è stato compiuto in perfetta simbiosi. «Ho profondo rispetto per gli attori, lascio la briglia sciolta. Metto il film a loro disposizione. Chiedo creatività. Servillo, trasformazione fisica a parte, ha recitato in romano per la prima volta nella sua formidabile carriera. Ha studiato, mettendo molta cura nel ruolo di Daytona. E così tutti gli altri. Penso a un film come a uno script all’altezza e a interpreti efficaci che, insieme al regista, si mettono al servizio della storia».
La sceneggiatura, firmata da Sollima e Stefano Bises, è nata tenendo conto degli attori che avrebbero retto i ruoli principali: «L’abbiamo fatta leggere a un gruppo di amici: è piaciuta. Abbiamo trovato un produttore entusiasta, Lorenzo Mieli. Ci siamo messi all’opera. Tutto qui. Da un film non mi aspetto niente di particolare. Il successo fa piacere, ma in me prevale il romano disincantato, vagamente cinico, che non si prende troppo sul serio». Sollima sostiene di aver costruito la sua carriera su un doppio binario: «Sono nato in una famiglia in cui si respirava cinema, un fatale approdo. Mio padre, a mano a mano che la passione cresceva, mi dava le istruzioni per l’uso: questo sì, questo no. In secondo luogo, ho sempre lavorato molto. Non mi sono mai risparmiato. Sono stato cameraman, reporter televisivo, pubblicitario. Per anni, ho fatto inchieste che mi hanno permesso di osservare da vicino la realtà. Tutto utile, perché gli elementi per raccontare il reale fanno parte anche del processo di narrazione del cinema».
Un felice apprendistato: «Sono cresciuto in mezzo ad adulti che sembravano giocare. Noi simulavamo le pistole con l’indice e il pollice. Loro sul set organizzavano sparatorie verosimili. Ho passato la giovinezza in collegio: ero un tipo tendenzialmente riflessivo, leggevo parecchio. Mi piaceva andare in giro per Roma in autobus e carpire bozzetti di vita quotidiana. Frequentavo i cineclub, passavo da I magnifici sette a Medea insieme a papà». Poi l’America: «Il rapporto è aperto, mi arrivano continue proposte. Ho due progetti sul tavolo che sto discutendo. L’America è una bellissima avventura. L’opportunità di confrontarsi con una cinematografia importante, piena di risorse. Ho imparato molto, mi sono sempre considerato un pendolare. Non ho mai valutato l’ipotesi di trasferirmi. Mi interessava portare laggiù il mio cinema senza farmi schiacciare. Volevo fare dell’esperienza un punto di partenza».
Sta girando una miniserie Netflix Original sul mostro di Firenze. Si dice fiducioso sulla ripresa del cinema: l’abitudine alla sala che sta tornando, il box office che si muove, le scelte di qualità che aumentano. «Il pubblico c’è, la fascinazione resta. Negli ultimi anni sono successe troppe cose negative: logico che si dovessero sentire i contraccolpi. Non ci sono scuse. Il compito di noi cineasti è mantenere il contatto con il pubblico. Un film è un dono che si fa allo spettatore, non a sé stessi. E mi permetta di dire un’ultima cosa...». Avanti. «Cinema e serie tv non sono due armate contrapposte, ma due narrazioni complementari. Il punto di raccordo esiste. Ci sono storie che hanno un respiro cinematografico, più stringato, e altre che necessitano di un tempo maggiore». Sollima, ma i suoi due figli, Simone, 18 anni, e Sebastiano, 15, che cosa ne pensano? «Da regista e padre dico che il rapporto genitori-figli era complesso un tempo e lo è anche oggi. Come tutti i figli Simone e Sebastiano chiedono soprattutto attenzione. Sono tornato a Roma anche per questo. Mio padre mi ha insegnato che non è un successo o una sconfitta che ti cambiano la vita, ma la summa delle tue azioni. Ci vuole tanta pazienza e, ripeto, non bisogna prendersi troppo sul serio».
«FACCIO IL PENDOLARE CON L’AMERICA MA ORA AVEVO NOSTALGIA DELLA MIA CITTÀ. CERCO IL PUNTO DI RACCORDO TRA FILM E SERIALITÀ: SO CHE ESISTE»