Corriere della Sera - Sette

NON DIMENTICAR­E GIULIA E LE PAROLE DI SUO PADRE UNA LEZIONE D’AMORE

- DI BARBARA STEFANELLI

Gino Cecchettin dice «Anch’io ti amo tanto». La frase arriva quasi alla fine del suo saluto alla figlia Giulia, in chiesa, a Padova, il 5 dicembre. Nel testo scritto del discorso, così come è stato poi diffuso dai giornali e sui social, prima di quel suo «anch’io» c’è un punto e prima ancora un altro pensiero – il ringraziam­ento per la tenerezza dei 22 anni vissuti insieme. Dice «anch’io», quindi, non in riferiment­o a qualcosa che è stato appena espresso. No, lo mette lì, in mezzo, come se sentisse risuonare la voce di Giulia che gli dice «ti amo, papà». E lui volesse risponderl­e ancora, e ancora.

Forse erano parole che la ragazza gli ripeteva, al mattino prima di uscire per andare a scuola e dopo all’università. Oppure la sera, al momento di augurarsi buona notte. Le giovani della Generazion­e Z lo fanno: fanno scoccare quei «ti amo» ai genitori mentre noi avremmo osato al massimo avventurar­ci in un «ti voglio bene», di solito più a nostro agio nei sentimenti inespressi, convinti e convinte, padri e madri un tempo figli e figlie, che tanto l’amore si intuisca, si capisca, sia negli atti. Anzi, non era Cesare Pavese a sostenere ne Il mestiere di vivere che i sentimenti inespressi – o meno espressi – durano più a lungo?

Questa famiglia, i Cecchettin, restano tra noi, dopo la grandine nera che si è abbattuta su di loro e su un Paese intero, l’Italia, che per una volta è sembrato non voler correre subito al riparo. Restano tra noi con la loro capacità di amarsi e di trovare le parole per dirlo. E poi, in una torsione di generosità infinita per la quale non li ringrazier­emo mai abbastanza, si girano verso chi sta guardando – chi sta ascoltando – e continuano a dare voce a sentimenti, valori, aspirazion­i. Lo sanno fare e lo fanno, parlano, ci parlano. «Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliar­e. Che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace». Voglio sperare, quindi spero, so ancora sperare, qui, adesso, domani. Forse – invece di dividerci in fazioni lungo la crepa di patriarcat­o sì/no, tanto sappiamo benissimo dove dovremmo appianare il terreno tra uomini e donne – potremmo accogliere e propagare la loro umanità. Così semplice, e straordina­ria.

Capace di affrontare la tempesta più devastante senza confinarsi nella rabbia, capace di mettersi già in posizione per imparare a muovere quei passi di danza sotto l’acqua che secondo Gibran ci guidano attraverso l’esistenza. Avevamo cominciato a scuoterci con quella chiamata a «bruciare tutto», ripresa da Cristina Torres Cáceres, poeta e attivista peruviana, abbiamo continuato a riflettere nella pioggia invocata dal Profeta del libanese-americano Khalil Gibran.

Giulia, Elena, Davide, Gino hanno dimostrato quanto e come si può amare. Scegliendo il silenzio, rompendolo con il rumore. Dicendosi «ti amo» e «anch’io ti amo», con coraggio, non importa se quelle poche sillabe sembrano a volte i chiodi di una scalata lenta, infinita.

La loro tragedia è diventata un patrimonio da custodire. Il corpo giovane di Giulia una promessa affinché non succeda che l’amore venga confuso con il possesso, la vicinanza con il dominio, la possibilit­à di colpire – perché sei armato, più grosso di scheletro e muscoli, perché ti senti legittimat­o dalla Storia – con l’autorizzaz­ione a farlo pure tu, ancora una volta, una in più.

CI SIAMO SCOSSI CON QUELL’INVITO A «BRUCIARE TUTTO», ABBIAMO CONTINUATO A RIFLETTERE SOTTO LA PIOGGIA DI GIBRAN

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